Perché gli intellettuali odiano il capitalismo

Per lo storico Zitelmann le élites progressiste sono invidiose di chi riesce a fare soldi da zero magari senza aver studiato

20 Luglio 2020

Libero

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Passi (si fa per dire) la “dittatura sanitaria”, la tentazione neodirigista che ha fornito l’occasione di governare “grazie a” lo stato d’eccezione anche a presidenti tutt’altro che investiti dal plebiscito come Giuseppe Conte da Voltura Appula. Che nessuno però approfitti della crisi pandemica causata dal Covid-19 per pensare a un ritorno su scala mondiale della grande “pianificazione” socialista. Sarebbe un affare non per i popoli ansiosi di riscatto economico e sociale ma (solo) per l’élite più trinariciuta, invidiosa e capricciosa del globo: quella progressista.

Ha doti divinatorie la tesi di Rainer Zitelmann che ne La forza del capitalismo: Un viaggio nella storia recente di cinque continenti (Ibl libri, pp. 348, euro 19), pubblicato nel 2018 ma giunto sui nostri scaffali solo qualche giorno prima del lockdown, ha centrato con precisione chirurgica il punto. Lo ha fatto proprio parlando dell’Italia: «Temo che, se dovessero tornare una crisi finanziaria o una crisi dell’euro, gli appelli in favore delle nazionalizzazioni si faranno ancora più pressanti, perché il mercato verrà incolpato dei problemi creati in realtà dallo Stato». Parole vergate nella prefazione all’edizione italiana chiusa nel gennaio scorso ma che sembrano “parlare” delle cronache di queste ore, con il ritorno dello Stato “padrone” in Autostrade per salvare la faccia del governo giallo-fucsia a spese… dello Stato stesso. Ovvero dei cittadini che pagano le tasse.

LO CHOC PLANETARIO
Non sembra vero ai maitre à penser e ai tecnocrati socialisteggianti sparsi fra i continenti di aver l’occasione per ridefinire un ruolo, il proprio, sulle spalle di quello imprenditoriale: tutto ciò a partire proprio da uno choc planetario che piaccia o no ha scoperto i fianchi ed evidenziato i limiti dell’economia interconnessa e di alcune plateali esagerazioni delle produzioni delocalizzate a scapito della sicurezza nazionale.

La soluzione? Per i progressisti negli Usa come in Europa è: più “burocrati” meno mercato. Dottrina che non interessa, attenzione, i cosiddetti paesi Brics ma che è al centro del dibattito esclusivamente in Occidente. Il motivo lo spiega lo stesso storico: «È innegabile che le disuguaglianze nel mondo siano diminuite: in Paesi che una volta erano considerati come estremamente poveri – specialmente Cina e India – più di un miliardo di persone sono state liberate dalle grinfie della povertà estrema. Si tratta di un fatto che nemmeno i più strenui critici del capitalismo possono negare». Il cortocircuito della sinistra, dunque, è tutto intra moenia: altro che «rivoluzione permanente», qui c’è da tenere a bada l’emancipazione e la redistribuzione “capitalista” nel Terzo mondo, la crescita del ceto medio nei Paesi in via di sviluppo a discapito del ceto medio occidentale e cittadino (e non solo dei cosiddetti “sconfitti della globalizzazione”).

Per questo motivo Zitelmann attacca gli statalisti a testa bassa: «Soprattutto gli anticapitalisti di sinistra, che hanno a lungo adottato la prospettiva globale nell’ergersi a difensori dei poveri e dei paesi del “Terzo Mondo”, oggi prendono invece le parti dei ricchi del “Primo Mondo”, come se fossero diventati totalmente indifferenti alle sorti degli abitanti dei paesi in via di sviluppo». Invidiosi dello sviluppo degli altri in giro per il mondo insomma, e storicamente invidiosi del successo sociale in patria.

Proprio la crisi del coronavirus sembra l’occasione ghiotta e irripetibile per la “casta della Ztl” per la resa dei conti, per ristabilire una gerarchia e mettere «sotto attacco» gli odiati capitalisti intestandosi il ruolo sovietico di “Commissari del Consiglio del popolo”. Il motivo è da bollettino psichiatrico: «Il cruccio degli intellettuali (nei confronti dell’imprenditore, ndr) – scrive l’autore – sta nel non riuscire a farsi una ragione del fatto che qualcuno dotato di un “intelletto inferiore”, e magari senza neanche una laurea, finisca comunque col guadagnare molto più di loro e vivere in una casa molto più grande».

SCENARIO INQUIETANTE
Una grande vendetta “di classe”, dunque, nei confronti del cosiddetto uomo pratico: l’archetipo del self made man. «Essi si sentono essenzialmente offesi da questo nel loro senso di “giustizia”, e riscattati dalla convinzione che ciò debba essere colpa di un malfunzionamento del capitalismo o dell’economia di mercato, che deve pertanto essere “riparato” attraverso una redistribuzione massiccia della ricchezza». È esattamente quello che sta andando in scena negli States (con gli sfidanti Democratici più radicali che propongono l’aliquota marginale al 70%), in Germania e soprattutto in Italia, con un esecutivo a fortissima trazione anti-produttivista che nemmeno davanti ai dati disastrosi del Pil ha voluto sentire parlare di “anno bianco” sulle tasse.

Profetiche, anche qui, le conclusioni a cui arriva Zitelmann: «Non vi saranno mutamenti formali nella proprietà privata dei beni, ma i diritti dei proprietari verranno sempre più ridotti, man mano che lo Stato prenderà egli stesso le decisioni e stabilirà a quali usi debbano essere indirizzati quei beni». Si tratta in fondo dello Stato sostanzialmente onnipotente e perciò “padrone” – né imprenditore né partecipatore – che unisce idealmente con un filo rosso Prodi e Conte, Gualtieri e Toninelli. Eh già: dalle nostre parti non esistono né vanno per la maggiore gli economisti-star alla Piketty. Qui ci dobbiamo “accontentare”, nel migliore dei casi, dei boiardi di Stato.

da Libero, 20 luglio 2020

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