Reddito di cittadinanza con un po' di realismo

Come si fa a immaginare che in poco tempo i Centri per l'impiego possano assorbire i nuovi impegni? Perché non appoggiarsi alle agenzie private? E poi i soldi e il «luogo». Appunti per una riforma utile

17 Dicembre 2018

L'Economia del Corriere della Sera

Nicola Rossi

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Premessa: chi scrive è convinto da anni che l’Italia abbia urgente bisogno di un moderno strumento di contrasto della povertà, simile a quelli già in essere in molti paesi europei e che completi quanto già avviato con il Reddito di inclusione. Uno strumento che si sostituisca e non si aggiunga all’attuale – inefficiente, inefficace ed a volte profondamente iniqua – congeria di misure di sostegno. E dunque, ben venga il reddito di cittadinanza (o comunque lo si vuole chiamare) se nasce con questi obiettivi. I testi normativi, ancora in via di redazione, ci diranno se così sarà. Nel frattempo, può essere utile formulare alcuni sommessi suggerimenti su due specifici punti: l’entità ed il funzionamento. Fermo restando che gli stessi potranno essere liberamente e comprensibilmente cestinati. 

Quanto (e dove) 
Sull’entità, per quanto sia stata rapidamente smentita, la cifra di 500 euro di cui si parla (e non più, quindi 780 euro) corrisponde in media al livello di povertà assoluta stimato dall’Istat e non è poi così distante dai livelli delle attuali misure locali di reddito minimo (che verrebbero, sperabilmente, del tutto superate). Superare il concetto di povertà relativa (che ha più a che fare con la disuguaglianza che con la povertà) e concentrarsi sulla povertà assoluta dimostrerebbe una importante ed apprezzabile capacità di distinguere fra ciò che può essere affrontato con uno strumento assistenziale (la povertà assoluta) e ciò che richiede invece strategie e strumenti del tutto diversi (la disuguaglianza). Il livello di 500 euro sarebbe certamente adeguato ma sarebbe opportuno che fosse diversificato per aree geografiche – come accade già oggi per le citate misure locali – per evitare ad esempio che a Milano si possa essere poveri in termini assoluti «nonostante», il reddito di cittadinanza. 

Come (e con chi) 
Più complessa la questione del funzionamento, in particolare per quanto riguarda il reddito di cittadinanza in quanto canale di avviamento al lavoro. L’idea che i Centri per l’impiego possano essere in grado nel giro di pochi mesi di sostenere dal punto di vista amministrativo il peso del reddito di cittadinanza è poco plausibile. Non è affatto chiaro allora perché mai non si utilizzino i canali già oggi immediatamente disponibili delle agenzie private per il lavoro. Esponenti del governo le considerano il «nuovo caporalato» ma la sensazione è che ci si basi su una conoscenza superficiale della realtà. Le agenzie in oltre un ventennio di attività hanno maturato esperienze significative nelle politiche attive per il lavoro e collaborano strettamente da tempo con le pubbliche amministrazioni. Dispongono di una rete di 2.500 sportelli. Farne a meno significa anteporre una lettura ideologica della realtà alle esigenze di chi un lavoro vorrebbe comunque, a prescindere dal canale usato per la ricerca. Salvo che non si pensi di risolvere il problema facendo un po’ di campagna acquisti nelle fila dei dipendenti delle agenzie private di somministrazione di lavoro. Sarebbe una clamorosa ingenuità: la irrilevanza dei Centri per l’impiego (da cui passa oggi meno del 3% dei flussi intermediati all’anno, una piccola frazione di quanto accade per le agenzie private) comincia dal brand e passa per la loro organizzazione. A prescindere da questo aspetto, rimane poi da capire come nei casi di attivazione al lavoro possa essere correttamente impostato il rapporto con il mondo delle imprese oggetto anch’esso di prese di posizione prevalentemente ideologiche da parte della maggioranza di governo. C’è chi ha suggerito di deviare parte delle risorse stanziate per il reddito di cittadinanza verso le imprese che le utilizzerebbero per retribuire i disoccupati che accettassero di essere formati dall’impresa stessa. Non è affatto chiaro quale possa essere, in questo caso, l’incentivo per l’impresa salvo che non si immagini (e non sarebbe un gran volo di fantasia) che l’impresa finirebbe in questo caso semplicemente per vedere sussidiato al roost il proprio ricorso alla forza lavoro non qualificata. 
 Forse più interessante la struttura di incentivi implicita nella proposta avanzata dall’Istituto Bruno Leoni: il trasferimento alla famiglia verrebbe nel tempo progressivamente trasformato in voucher contributivi che il beneficiario del reddito di cittadinanza potrebbe liberamente spendere sul mercato (sapendo che l’importo residuo del reddito di cittadinanza non verrebbe ridotto in proporzione uno a uno nel momento in cui trovasse un lavoro grazie anche allo sgravio contributivo). Altre soluzioni sono certamente possibili ma è importante che la norma sia costruita in maniera tale da rappresentare un incentivo per ambedue le parti in causa. Ambedue necessarie per la riuscita dell’iniziativa.

Dove (ovunque) 
Infine, c’è un evidente sapore ideologico nella ipotesi – che sembrerebbe essere presente nelle intenzioni del governo – di tutelare la volontà del beneficiario del reddito di cittadinanza di trovare una occupazione non lontano da casa. La questione andrebbe piuttosto rovesciata favorendo la mobilità geografica (prevedendo – come sembra si stia facendo – un incremento del beneficio per l’affitto dell’abitazione) e consentendo al singolo beneficiario di registrarsi non solo nel Centro per l’impiego sotto casa ma anche in ogni altro Centro del Paese.  Si è ancora in tempo per fare del reddito di cittadinanza una riforma utile al paese. Non a sostenere la domanda come pensano i keynesiani giulivi di casa nostra, ma a dotarsi di un sistema di assistenza efficiente che diversamente dall’attuale non spenda 60 miliardi l’anno (in crescita) per registrare poi 15 milioni di cittadini in povertà assoluta. Francamente, una vergogna. 
 Ma per farlo è necessario accantonare la venatura ideologica che ha fino ad ora accompagnato il percorso non proprio lineare del governo. Una venatura ideologica fuori dal tempo che ha contribuito non poco, negli ultimi sei mesi, a spingere il Paese verso la recessione. Altro serve ora al paese. Ora serve – e su molti fronti – realismo. Servono pragmatismo e concretezza. Supponendo che il governo ne disponga. 

Da L’Economia del Corriere della Sera, Lunedì 17 Dicembre.

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