La corrida è una cosa seria, parola di filosofo

Ortega y Gasset difese “l'arte del matador”, che riteneva «un paradigma scientifico ideale applicabile all'evoluzione di tutte le arti»

23 Agosto 2019

La Provincia

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Nel 1949, «alcuni avvoltoi della stampa, che gracchiano dalle colonne di periodici e riviste», puntarono José Ortega y Gasset (1883-1955). Ortega stava tenendo un corso, assai frequentato, su Toynbee. I suoi critici volevano «screditare queste lezioni e denigrare questo uditorio, facendo notare che vi partecipano anche toreri». Nel pubblico sedeva effettivamente Domingo Ortega, l’amico e matador al quale il suo omonimo regalerà un testo, da stamparsi come appendice a una sua conferenza l’anno seguente.

Va da sé che il filosofo madrileno rispose per le rime. Due, spiegò, erano i fatti innegabili di quel corso: «il rigore della dottrina e la presenza dei toreri». Le iene dattilografe «non solo non sanno che cosa sia un torero, ma non sono nemmeno capaci di sentirlo o di intuirlo come lo sentono e lo intuiscono molti spagnoli». Non foss’altro per questo scatto d’ira, è difficile immaginare che tori, corride e matador fossero, per Ortega, faccende di scarsa importanza Era anzi convinto della necessità di studiarle per comprendere la storia spagnola e vi dedicò riflessioni dense quanto discontinue.

«Ciò che dovrebbe essere un torero nessuno lo sa in Spagna e nel mondo meglio di me». Eccolo, José Ortegay Gasset, che prende il fucile e mira ai rapaci Fatichiamo a comprendere la temperie culturale di quegli anni, le difficoltà del grande filosofo rientrato nella Spagna ormai franchista, le ambiguità di cui si carica la parola “tradizione” in una dittatura “di destra” ma repubblicana, accentratrice e alle prese con un Paese così ostinatamente plurale come la Spagna era ed è. Ortega morì sei anni dopo, la Ribellione delle masse l’ha scritta vent’anni prima, ha fatto la sua parte di sismografo della società europea. Le corride per lui non sono solo un ricordo di gioventù e neppure un evento mondano. Una volta ricostruita, spiega, la storia delle corride sarebbe «un paradigma scientifico ideale, perla sua trasparenza e la sua semplicità, applicabile all’evoluzione di tutte le arti». […]

Parte della storia spagnola
Alle corride come oggetto di studio, dunque, Ortega non si accostava per gusto personale, per trarre un utile dal dilettevole, ma perché profondamente convinto che si trattasse di una «realtà di prim’ordine nella storia spagnola fin dal 1740». Sapeva di aver «fatto il mio dovere di intellettuale spagnolo, il che non si può dire della maggioranza (degli intellettuali): ho pensato seriamente alle corride».

Quanto profondo e quanto serio fosse questo interesse di Ortega per il mondo dei tori lo rivela soprattutto proprio l’incompiutezza della sua riflessione sul tema, sviluppata senza mai trovare la forza di terminarla: già nel saggio che ne segna il debutto letterario, le Meditaciones del Quijote del 1914, appare l’annuncio di un prossimo libro dell’autore, “Paquiro o de las corridas de toros”, che mai vedrà la luce. Paquiro è il nome col quale era conosciuto Francisco Montes, matador della prima metà dell’Ottocento, allievo alla Re al Escuela de Tauromaquia di Siviglia di Pedro Romero, il massimo torero del Diciottesimo secolo.

“Paquiro” è con tutta probabilità il più grande libro sulle corride che non potremo mai leggere. La Revista de Estudios Orteguianos ha pubblicato gli appunti di Ortega su tori e tauromachia, in larga misura note sulle evoluzione lo sviluppo del toreo. Fu del resto proprio Ortega a consigliare all’editore Espasa-Calpe la realizzazione di un grande trattato sulle corride, risultato poi nell’enciclopedica opera in più volumi di José Maria de Cossío.

L’approccio di Ortega, come confermano gli appunti, era storico. [..] La corrida è solo spagnola e proprio questo dato identitario reclama l’attenzione di chi pensa seriamente alle corride, definisce l’oggetto della loro attenzione. «La nazione spagnola ha vissuto principalmente del suo entusiasmo per questa festa più che di ogni altra cosa». «La storia delle corride di tori rivela alcuni dei segreti più reconditi della vita nazionale spagnola lungo quasi tre secoli». Anzi, «non si potrà comprendere appieno la storia della Spagna da11650 finché non vi sarà qualcuno che ricostruisca in modo rigoroso la storia delle corride».

La svolta de11740
È dopo il 1740 che «appaiono le prime “squadre” professionali, in grado di “lavorare” il toro nell’arena secondo riti ben formalizzati e di giorno in giorno già precisi, culminanti in un’uccisione a regola d’arte». Ma pian piano quelle regole emergono, grazie a un popolo che «di stile, di atteggiamenti, doveva intendersene: sapeva cioè coltivare l’arte delle forme scommettendoci con tutta l’attenzione possibile».

Il Paquiro nel titolo del libro mai pubblicato allude a un personaggio che è stato assieme autore di un trattato (la Tauromaquia completa) e un grande innovatore del toreo (e riconosciuto come tale: lo stesso cappello tradizionale del torero, la montera, si chiama così proprio in omaggio a Francisco Montes); e l’una e l’altra cosa forse proprio perché era un matador la cui arte «era molto affezionata ai gesti arcaici, alle capacità popolari che, in questo caso, provenivano dai dintorni di Chiclana, dai lavori nelle immense saline che si dispiegavano fino al mare, dal suo villaggio alle vicinanze di Cadice».

Questo è lo snodo storico cruciale. Gli antecedenti dei giochi con i tori sono, appunto, antecedenti ma essi sono altra cosa. Si tratta di una tradizione che richiama apertamente i sacrifici pagani e che a un certo punto incappa addirittura nella scomunica, con la bolla papale De salute gregis di Pio V (1567) nella quale si proibivano «quegli spettacoli dove tori e fiere in circo o in piazza si agitano» in quanto «alieni da pietà cristiana». Poi la disposizione fu ammorbidita, nel momento in cui parve suscitare soltanto sentimenti di rivolta fra i fedeli spagnoli. L’opposizione dei teologi prima (fra cui, in particolare, il gesuita Juan de Mariana), lo sdegno degli illuministi poi sembrano a Ortega confermare il carattere peculiare del popolo spagnolo, la sua lotta prima contro il “puritanesimo” (si perdoni l’anacronismo) della Chiesa e poi contro il razionalismo degli intellettuali. Ciò che è “popolare” ha radici in una tradizione antichissima è, per l’appunto, un lascito dell’età pagana. «Toreo non dimenticare che matar viene da mactare che è onorare, offrire in sacrificio e dunque sacrificare qualcosa». L’interesse per una tradizione sopravvissuta ai secoli, capace di resistere alla pedagogia cattolica e a quella atea: anche questo sono le corride, se ci si pensa “seriamente” come Ortega.

Per citare Hemingway, la corrida non è «una gara o un tentativo di gara tra un toro e un uomo. È piuttosto una tragedia: la morte del toro, che è recitata, più o meno bene, dal toro e dall’uomo insieme in cui c’è pericolo per l’uomo ma morte sicura per l’animale». In questa recita, l’atto dell’uccisione dell’animale ha un che di sacro che chi non h a mai visto una corrida, e adire il vero anche chi ne ha viste una o due soltanto, non può proprio capire. Capita di assistere alla “squadra” di un matador che si avvicina all’animale morente con rispetto reverenziale, come al capezzale di un vecchio maestro, non di un nemico.

“Matar bien”
Proprio per questo bisogna “matar bien”, e matar bien è così fondamentale che non importa quali strepitosi svolazzi di capote il matador abbia regalato al pubblico nei primi due terzi della corrida, quanto abbia rischiato la pelle avvicinandosi a quella specie di fulmine nero di seicento chili che lo rincorre nella plaza, quante volte abbia lasciato l’impronta dei suoi ginocchi nell’arena. Chi mata mal, chi uccide male, causando alla bestia un’agonia peno sa, perde le “orecchie”, i punti in palio in questa incredibile tenzone.

Non sapremo mai, purtroppo, in che misura la riflessione sulla corrida ha veramente plasmato le considerazioni di Ortega sulla vita e sulla società. Ma forse non è neppure necessario. Ortega, come ha scritto Infantino, «appartiene alla comunità dei classici, di coloro che [..] sanno sollevare nuovi interrogativi, problemi che sopravvivono al proprio tempo». Al pari dei grandi romanzieri, ci sono grandi pensatori che ci fanno entrare in un mondo di cui loro soli hanno la chiave: e altri che invece ci accompagnano per le strade del nostro mondo, costringendoci a guardarci in giro. A pensare sul serio alle corride, per esempio.

Da La Provincia, 18 agosto 2019

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