In un elegante volume della collana “Arte”, Marsilio pubblica il diario scritto da un Franco Debenedetti ancora bambino, durante i due anni di esilio in Svizzera, dove la famiglia si era rifugiata a fronte della persecuzione antiebraica, dei bombardamenti e della distruzione dell’azienda familiare.
Aiutati da una famiglia di amici di Lucerna, attraverso tappe in diverse cittadine, i Debenedetti riparano in Svizzera: il titolo del libro allude al passaggio non solo dal familiare ambiente di casa a un paese straniero, ma anche all’avventura intellettuale di apprendere in pochi mesi la lingua tedesca, indispensabile per potersi iscrivere a scuola e comprendere i giornali dei quali tutti sono avidi lettori.
Franco Debenedetti ha in alcune interviste ricordato come la madre avesse consegnato a lui e al fratello Carlo un quaderno, invitandoli a tenere un diario. Non si può dire che i due fratelli abbiano ignorato l’invito: nel giugno 2024 Treccani ha pubblicato i diari del fratello minore Carlo Debenedetti, Diario di un ragazzino rifugiato, 1943–1945, ed è possibile ora confrontarlo con le memorie di Franco, di due anni maggiore. Entrambi si rivelano attenti cronisti e catalogatori di tracce e ricordi che possano essere incollati su un foglio di carta.
Così come per il diario di Carlo, il libro che ci troviamo per le mani fedelmente riporta appunti, fotografie, cartoline, biglietti ferroviari, titoli di giornali, in una curata edizione anastatica che restituisce i toni seppiati delle foto dell’epoca, le grafie inclinate delle lettere dei familiari, le cartine topografiche.
È questo il racconto di un esilio visto dallo sguardo di un bambino che non ha ancora undici anni e trascende la dimensione del memoir familiare per diventare un documento storico, filtrato però dal pensiero giovane di un undicenne. Così nel novembre 1943 Franco nel suo diario annota: «Siamo partiti la mamma, Bianca, Carlo ed io da Revello, con la corriera delle 17, per Saluzzo».
La fuga della famiglia Debenedetti ci viene raccontata in dettaglio con una ordinata scrittura da scolaro elementare, ma con la precisione e la proprietà di linguaggio di un giovane adulto. La famiglia entra clandestinamente nella Confederazione svizzera, e al racconto Franco aggiunge un disegno: una casetta, una recinzione con uno squarcio nel mezzo; accanto, scrive: «C’era uno stretto buco in una rete. Io passai per primo, poi papà, poi Carlo e infine la mamma. Ma senza badare all’uomo che teneva la rete che diceva: “Calma, adagio, non c’è fretta!” Due passi su un fradicio ponticello in legno ed… eccoci in Isvizzera! Era il giorno 9 novembre 1943, ore 17.25».
I Debenedetti arrivano a Lugano e, dopo la quarantena nel dicembre 1943, raggiungono Lucerna, dove per un anno e mezzo alloggeranno alla pensione Ruttiman, aiutati in tutti questi passaggi dalla famiglia di Otto Meyer Keller, industriale anch’egli, con il quale Rodolfo Debenedetti aveva ottimi rapporti.
Proprio Adrienne Meyer Keller, sorella di Otto, si occupa di ospitare la famiglia Debenedetti sin dal loro arrivo. Franco descrive il suo primo Natale in Svizzera, accolti dal calore della famiglia amica e dal primo albero di Natale, lui che conosceva solo il presepe: «Abbiamo potuto ammirare le meraviglie dell’albero di Natale svizzero. Candeline, fuochi artificiali, palloncini, cioccolatini a profusione…».
La penna di Franco coglie momenti di intimità familiare, registra i periodi di difficoltà, come la lunga malattia del fratello e la preoccupazione per i familiari lontani, e si sofferma sugli studi: Adrienne Meyer Keller, figura di grande importanza nel periodo del soggiorno a Lucerna, si dedica a insegnare il tedesco ai ragazzi. La prima ginnasio inizierà a Pasqua e in poco più di tre mesi Franco, grazie ad Adrienne, riuscirà a superare il test di conoscenza della lingua e viene ammesso alla frequenza.
«La prima al ginnasio cantonale iniziava un semestre dopo, e cioè a Pasqua. In quei tre mesi imparai il tedesco grazie ad Adrienne, che, nonostante non avesse mai insegnato, inventò un metodo per farmi imparare il tedesco attraverso lo studio di dieci vocaboli al giorno», racconta Debenedetti, che sul diario, quel 24 aprile 1944, scrive: «Ho fatto il mio primo ingresso alla scuola cantonale. Questa data segna un grande cambiamento nella mia vita».
La conoscenza del tedesco si rafforza con la lettura di tutti i giornali rintracciabili. Il ragazzo segue con attenzione gli sviluppi della guerra, che poco per volta sovrasteranno le cronache familiari. Ha solo tredici anni quando ritaglia dai giornali le immagini dei prigionieri dei lager, e quando sul suo lungo diario finalmente scrive, in grandi caratteri rossi, la parola PACE.