Com’è noto, e come scrive Alberto Mingardi nel suo fascinoso libro dal titolo “Meglio poter scegliere. I referendum del 1995 e la battaglia per la televisione commerciale“, «agli occhi dei contemporanei la democrazia è sempre spacciata». Capita anche nell’Italia di Silvio Berlusconi e dei partiti bigotti (o astutamente tali, per convenienza politica) della prima repubblica, quando la lotta di classe, anziché divampare tra le classi antagoniste della favola marxista, oppone d’un tratto Drive In e gli spot dei detersivi all’alta cultura di Canzonissima e dei programmatori Rai, tutti in quota spartitoria. Berlusconi, con le sue televisioni e il suo partito di plastica, sta «spacciando la democrazia», e la sinistra imparruccata e post bolscevica, mignolino alzato e tutto, deve assolutamente fermarlo. È il trionfo del pop: da una parte gli eredi dei dieci giorni che sconvolsero il mondo, dall’altra un sinistro impresario di ballerine.
Non è una guerra soltanto italiana, racconta Mingardi, né è cominciata soltanto allora, quando chi per addormentarsi (come Umberto Eco) «legge Kant» e chi invece (la «massa» ma anche un po’, diciamolo, la feccia della società) guarda le «ragazze fast food» sculettare in «abiti succinti», come si diceva allora (nell’Italietta delle parrocchie e delle case del popolo). Quella tra cultura tamarra e cultura alta, in fatto d’intrattenimento (e non solo) televisivo, è una battaglia iniziata molto tempo prima, già all’epoca delle primissime trasmissioni tv, nell’Inghilterra e negli Stati Uniti degli anni Trenta. Fin dall’inizio, gli statalisti e i socialisti snob sono contro la libertà di trasmissione, cioè contro la facoltà di scegliere tra programmi e antenne diverse da parte dell’«utenza» (come viene d’un tratto derubricato il «popolo») e a favore dei programmi «educativi» che, vietando alla canaglia le cattive frequentazioni pop, elevano il branco bruto dei telespettatori alle altezze (direbbe Th.W. Adorno) della «mezza cultura» che le redazioni televisive statocentriche si vantano di possedere: un umanesimo da barzelletta che vale ovunque tranne che in Urss e all’Avana, una democrazia che va difesa soltanto se a chiamarla così sono i semicolti, qualche patetica lettura liceale con cui pavoneggiarsi, senza provare imbarazzo, nei talk show acchiappagonzi, dove si citano sempre e soltanto Pasolini, Manzoni, Don Milani, Leopardi e, tra una massima da cioccolatino e l’altra, si fischiettano Bella ciao e i vecchi hit finto-comunardi di Pete Seeger.
È a questo punto che prima o poi, sotto tutte le latitudini, battono un colpo le televisioni commerciali (dove «commerciali» è da pronunciare, va da sé. con una smorfietta salottiera). In Italia succede negli anni Settanta e Ottanta, quando dal marasma delle emittenti lo cali e delle sentenze che le bloccano oppure le ammettono nasce TeleMilano, da TeleMilano Canale 5, al quale s’aggregano Italia 1 e Rete 4. Telequiz, avanspettacolo, donnine, canzonette. È permesso? Siamo truzzi.
«La tv privata» – scrive Mingardi – «fu […] la nostra Silicon Valley. Tanto più straordinaria perché si trattò di un’esplosione di spirito imprenditoriale in un Paese in cui la politica, la cultura, le classi dirigenti variamente definite apprezzavano tutto fuorché lo sviluppo anarchico e bottom up […] A questo punto, come sempre quando si menzionano nella stessa frase la Silicon Valley e l’Italia, bisognerebbe lamentare che noi non abbiamo avuto un nostro Steve Jobs. Ma non è vero, ce l’abbiamo avuto eccome. Il nome lo conosciamo tutti».
Causa Berlusconi, «quel parvenu, la televisione incarnata, la cultura di massa fatta persona», ma causa soprattutto i suoi nemici, vittime (a dirlo è lo stesso Massimo D’Alema) di «posizioni elitarie e snobistiche», la plebe televisiva entra nel gioco della grande politica, come in altri tempi e sotto altre lune, il proletariato. Si formano strane alleanze. Indro Montanelli, che di Berlusconi è stato il Pigmalione, prima «assumendolo» come editore e poi consigliandogli sarti, camiciai e parrucchieri incaricati di metterlo all’onor del mondo, passa dall’aver proposto nei primi Settanta un referendum per liberalizzare l’etere ad appoggiare i tre referendum che vent’anni più tardi si propongono di de-liberalizzare l’offerta televisiva, lasciando alla Rai e ai partiti il pieno potere sulle serate degli italiani, che di propria sponte farebbero solo del male a se stessi, guardando La ruota della fortuna e votando Forza Italia. Lasciato il Giornale, Montanelli fonda La Voce, un giornale di destra per un pubblico di sinistra o (non è chiaro) di sinistra per un pubblico di destra: insomma un foglio che non ha né può avere lettori, e che infatti sparisce in fretta dalle edicole. È in nome d’un liberalismo frainteso che La Voce, prima di chiudere, chiama tutte le testate dell’epoca a una crociata comune contro l’usurpatore e il suo losco esercito di comici, venditori di pentole, bellone e canterini.
«Sulla Voce – scrive ancora Mingardi – l’ostilità verso Berlusconi è innalzata a difesa d’uno dei principali valori liberali: la libertà d’espressione. E conta poco che per difenderla s’invochi una “concertazione permanente” fra direttori di giornali, il passaggio di tutte le testate sotto un “direttore collettivo”. Che, cioè, proprio mentre si appiccicava sul volto di Berlusconi il ritratto di Mussolini, s’immaginasse una difesa “corporativa” per la libertà d’informazione, che voleva promuovere programmaticamente un’informazione ancora più uniforme». Fortuna che anche a sinistra ci sono altre voci: «L’unico articolo che, a trentacinque anni di distanza, valga la pena leggere è quello di Mariuccia Ciotta, una critica cinematografica che per il manifesto si occupa anche di tv. Una qualche forma di regolamentazione è necessaria, conviene anche a Berlusconi, scrive Ciotta, perché appunto c’è la libertà di telecomando e l’eccesso di interruzioni abbassa l’audience. Ma, aggiunge, a furia di battagliare contro gli spot non si capisce che la tv privata fa pagare in tempo qualcosa che altri fanno pagare in denaro: «La Rai pretende il canone, la sala cinematografica un biglietto di 8000 lire». […] Da donna di sinistra, nella proposta di legge trova «un preoccupante atteggiamento politico». La sinistra sembra sempre schierarsi con «le vecchie corporazioni dello spettacolo”, con chi il cinema lo fa ed esibisce il feticcio dell’opera d’arte».
Tre referendum, ma in sostanza uno solo: volete o no impedire al Cav. di conquistare l’universo, come a Thanos nel film Marvel? Col «sì», gli negherete di raccogliere la pubblicità che mantiene economicamente in gioco le sue tivù e lo sbarazzerete delle concessioni grazie alle quali può accedere al mercato. Ma soprattutto volete o non volete impedirgli a suon di schede d’«interrompe re un’emozione» (come diceva anni prima Federico Fellini) infarcendo i film di pubblicità dei sughi in scatola e delle mozzarelle light? Conosciamo la risposta, forte e chiara: «no».