Tutti vogliono il “price cap” sul gas, ma quale?

I tetti sono tanti e le controindicazioni pure. La scelta non è semplice

1 Settembre 2022

Il Foglio

Argomenti / Ambiente e Energia

Tutti pazzi per il price cap. Nessuno, però, dice con chiarezza cosa intende in pratica. O, per meglio dire, la stessa espressione viene utilizzata per indicare cose molto diverse tra di loro.

Ci sono tre distinzioni fondamentali: cap al prezzo del gas oppure dell’energia elettrica; cap nazionali oppure europei; cap ai prezzi all’ingrosso oppure al dettaglio. Molte proposte sono mutuamente esclusive: se i prezzi del gas calano, per effetto del tetto o per altre cause, quelli elettrici seguono a ruota, rendendo inutile un intervento specifico. Inoltre, alcune di esse sono dichiaratamente transitorie (il tetto al gas), mentre altre (specie nel caso elettrico) sono pensate come strutturali.

Poiché la crisi energetica ha il suo epicentro nel mercato del gas, appare logico partire da qui. Sebbene alcuni abbiano occasionalmente ipotizzato tetti nazionali, è subito diventato chiaro che l’intervento può solo essere europeo. In caso contrario, i paesi che si rifiutano di pagare oltre una certa soglia rischiano di rimanere a secco.

A livello Ue si ipotizzano principalmente due tipologie di misure. Da un lato c’è chi propone un tetto alle sole importazioni via gasdotto dalla Russia: di fatto, una sanzione contro Mosca. Il premier Mario Draghi ha più volte fatto riferimento a tale eventualità. Tuttavia, sembra che la proposta su cui il governo italiano sta lavorando – e su cui sembrano convergere anche la Germania e l’Austria – preveda un limite ai prezzi che possono formarsi sul Ttf e le altre borse europee (come l’italiano Psv). L’idea di fondo è che, dietro gli attuali livelli dei prezzi, vi sia una forte componente speculativa.

La rilevanza del Ttf non sta di per sé nei volumi scambiati quotidianamente, che sono limitati: deriva dall’influenza indiretta che ha su quasi tutti i contratti di approvvigionamento di lungo termine, che a esso sono indicizzati. I critici temono che la speculazione giochi in questo momento un ruolo secondario, e che dunque un price cap finirebbe per indurre i produttori a vendere il loro gas al miglior offerente. Questo problema riguarda soprattutto i carichi trasportati via nave, che pertanto qualcuno propone di escludere dal cap.

Tra i pessimisti sulla possibilità di contenere i prezzi del gas, diversi pensano che si debba allora intervenire sui mercati elettrici, per evitare che i rincari si propaghino a valle. Infatti, i prezzi dell’energia elettrica all’ingrosso si formano sulla base di una regola – quella del costo marginale – secondo cui tutta l’energia consumata in un dato momento viene remunerata sulla base dell’impianto più costoso necessario in quel momento. Il boom dei prezzi del gas ha fatto crescere a dismisura i prezzi, e gli utili, anche di quegli impianti che non hanno avuto aumenti dei costi (come le rinnovabili o il nucleare) o che li hanno avuti in misura inferiore (il carbone). Anche qui circolano diverse ipotesi.

L’Italia, a dire il vero, ha già introdotto un meccanismo che agisce in tal senso: il decreto “Sostegni-ter” ha posto un tetto ai ricavi di gran parte delle fonti rinnovabili, che devono restituire al sistema la differenza tra i prezzi di mercato e un valore di riferimento giudicato sufficiente a remunerare l’investimento. La Spagna e il Portogallo hanno invece varato il “tope al gas”: in pratica, un tetto al prezzo del gas riconosciuto ai produttori di elettricità da questa fonte, a fini di formazione del prezzo dell’energia elettrica in borsa. Questo si traduce in una riduzione del prezzo all’ingrosso dell’energia elettrica, anche quella prodotta da rinnovabili o nucleare. L’eventuale differenza tra il prezzo riconosciuto ai produttori da gas e quello effettivamente pagato per l’approvvigionamento del metano è risarcita attraverso le spese dei consumatori finali.

Un simile meccanismo ha il vantaggio di non stravolgere le regole del mercato elettrico, ma è percorribile solo se applicato a livello europeo. Mentre Madrid e Lisbona hanno scarse interconnessioni col resto del continente, paesi come l’Italia sono invece molto connessi. Quindi una riduzione unilaterale dei prezzi elettrici si tradurrebbe in una enorme richiesta di export, mettendo in crisi il nostro parco di generazione. Né si può pensare di prevenire tale problema vietando l’esportazione di energia: al di là degli aspetti giuridici, l’Italia ne sarebbe danneggiata, essendo anzitutto un paese importatore.

Infine, riscuote grande successo in campagna elettorale la proposta di “disaccoppiare” l’energia rinnovabile da quella termoelettrica, creando sessioni di mercato distinte. Una variante di tale meccanismo è stata formalizzata dalla Grecia e sarà discussa durante il prossimo Consiglio energia del 9 settembre. In realtà il meccanismo non è chiarissimo, anche perché pretende di trattare diversamente un prodotto (l’energia elettrica) che è assolutamente omogeneo. In ogni caso, sebbene meriti un approfondimento, è chiaro che l’obiettivo finale è ridurre (e secondo qualcuno stabilizzare nel tempo) i proventi delle fonti rinnovabili. Peraltro, diversi tra i sistemi citati richiedono – in vario modo e in diversi orizzonti temporali – l’iniezione di spesa a piè di lista, a carico della bolletta o del Tesoro. Quindi, più che ridurre gli oneri, in realtà li spostano.

Da ultimo, c’è chi vorrebbe mettere un cap ai prezzi finali di vendita dell’energia elettrica e del gas. Al di là delle buone intenzioni, ciò rischia di generare effetti perversi: i venditori rischiano di non essere in grado di coprire i loro stessi costi. Il precedente inglese è istruttivo: la Gran Bretagna ha adottato un price cap pochi anni fa. I rincari degli ultimi mesi hanno fatto esplodere i bilanci degli operatori, i quali non hanno però potuto riversarli a valle: il risultato è che circa la metà ha dichiarato bancarotta, lasciando un buco di miliardi di sterline e milioni di clienti senza fornitore. In modo meno estremo, anche il governo italiano ha fatto qualcosa di analogo: il decreto “Aiuti-bis” di agosto impedisce ai fornitori di rinegoziare unilateralmente i contratti, pur in presenza di prezzi eccezionali come quelli in atto. Se la misura sarà confermata in sede di conversione, come del resto hanno rilevato i tecnici del Senato, diversi venditori potrebbero essere costretti al fallimento.

da Il Foglio, 1 settembre 2022

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