Taxi: se il problema sono le grandi città, perché non cominciare la liberalizzazione al di fuori di esse?

Forse è il caso di rovesciare l’approccio seguito finora


27 Dicembre 2023

Istituto Bruno Leoni

IBL

Argomenti / Diritto e Regolamentazione Politiche pubbliche

La scarsità dei taxi nelle grandi città è un evergreen della politica italiana. A turno, destra e sinistra si accusano reciprocamente di non aver risolto un problema annoso, e hanno entrambe ragione. Sulla capacità dei tassisti di impedire ogni riforma si sono scritti fiumi di parole – da ultimo, sul Wall Street Journal di ieri, che ha rinfocolato il dibattito per l’ennesima volta – e più di una volta si è arrivati sull’orlo della crisi di governo.

Tutti quelli che hanno provato seriamente a mettere mano al settore hanno dovuto arrendersi: Pierluigi Bersani e Mario Monti su tutti. Mario Draghi ha lasciato in eredità al governo successivo una legge delega che nessuno avrebbe mai esercitato e Giorgia Meloni non ha mai neppure promesso di volerlo fare. La mini-riforma di pochi mesi fa, che nella sostanza mette la palla in mano ai sindaci che già ce l’avevano, si è prevedibilmente risolta in un nulla di fatto.

Da questa breve ricostruzione di ciò che è sotto gli occhi di tutti, si potrebbe essere tentati di dedurre due conclusioni: primo, i tassisti sono intoccabili; secondo, il paese è irriformabile. Per fortuna non è necessariamente così, non fosse altro perché i taxi – per quanto possano essere un pezzo importante dell’economia – non sono certamente il principale dei nostri problemi né il più urgente. Tuttavia, c’è un errore nel modo in cui la questione è stata finora affrontata e interpretata. Infatti, non è vero che – in generale – i tassisti sono una corporazione invincibile e, spesso, violenta: questa evidenza riguarda solo alcune metropoli, in particolare Roma e Milano, nelle quali le autopubbliche sono in grado di mettere a ferro e fuoco l’intera città.

Ma Roma e Milano, per quanto importanti, non coincidono con l’Italia: nei comuni con più di 500 mila abitanti risiede appena il 12 per cento della popolazione italiana. Quasi la metà della popolazione (per la precisione, il 46,7 per cento) vive in comuni con meno di 20 mila abitanti. In queste cittadine i tassisti non hanno potere di ricatto: sono pochi e non se la passano neppure particolarmente bene dal punto di vista finanziario, visto che la domanda dei loro servizi è assai debole. Questo implica, però, che i (pochi o tanti) clienti che ne hanno bisogno si trovano spesso in difficoltà, anche perché neppure gli Ncc sono in grado di soddisfare il mercato. Che fare, allora?

Forse è il caso di rovesciare l’approccio seguito finora. Perché non rimuovere ogni ostacolo alla concorrenza nei piccoli comuni, consentendo l’ingresso delle piattaforme di condivisione inizialmente con autisti professionisti, ma in prospettiva anche aprendo le porte all’esercizio occasionale di questa attività da parte di autisti non professionisti? Nel breve periodo in cui UberPop ha potuto operare in Italia – prima che la giustizia ordinaria vietasse questo tipo di intermediazione e la politica si voltasse dall’altra parte – i clienti hanno dimostrato di apprezzare questa possibilità e i driver si sono immediatamente messi a disposizione, vedendovi un’opportunità di arrotondare lo stipendio o pagarsi gli studi.

La tecnologia per svolgere questo servizio è disponibile e rodata da anni. Nella vasta provincia italiana, non c’è sostanzialmente opposizione a questo esperimento di liberalizzazione. E l’Italia non finisce sulle barriere dei maggiori comuni: anzi, c’è molta più Italia al di fuori di esse. Perché, quindi, non aprire il 2024 facendo qualcosa di utile per molti e dannoso per nessuno?

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