Sussidi per i microchip? Copiare l'America non aiuta

Joe Biden pensa ad altri interventi, ma inondare il mercato di soldi pubblici rallenta gli investimenti anziché accelerarli


4 Marzo 2024

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Economia e Mercato

Il governo americano sta pensando a un Chips Act 2: a un nuovo giro di sussidi, da scaricare sul conto corrente delle imprese che producono microchip. La notizia è stata accolta come una riprova che l’Europa debba «fare qualcosa». Circola, in queste settimane che precedono le elezioni europee, l’idea che siamo indietro, che non abbiamo sostenuto l’economia quanto gli Usa. Insomma, che sia necessario spendere (anche a debito e per fare che cosa non è ben chiaro) molti soldi, il prima possibile. 

Siamo sempre alle pentole e ai coperchi. È vero che l’amministrazione Biden ha stanziato 52 miliardi di dollari per il Chips and Science Act, datato 2022. Ma è altrettanto vero che chi ne siano i concreti beneficiari è un’informazione che con tutta probabilità sarà disponibile per il discorso sullo stato dell’unione del 2024, cioè questa settimana. 

Vale la pena mettere a fuoco la dinamica, perché non si tratta di un’eccezione bensì della regola. Il governo dichiara che siamo in una situazione di emergenza: per esempio, che l’industria statunitense dei chip, a lungo leader incontrastata con Intel, è ora esposta a una concorrenza internazionale efficiente, che come tale erode quote di mercato. Bisogna agire, subito. C’è in ballo la sicurezza nazionale (i componenti cinesi, anche in un telefonino americano, sono come microscopici 007 pronti a fare il gioco di Pechino o a mettersi al servizio del primo hacker russo di passaggio) e pure il primato tecnologico della potenza egemone. Quindi, inondiamo il mercato di soldi del contribuente (magari prendendoli a prestito dai nipoti del contribuente) per salvare l’industria nazionale. Questo si dice, con molta animosità, nel 2022. 

Poi passa il tempo, bisogna studiare i meccanismi di allocazione, le norme devono superare il vaglio di commissioni e dibattiti parlamentari, perché denaro stanziato nel 2022 diventi moneta sonante bisogna aspettare due anni. Se emergenza era, dovrebbe essere, ora, crisi. La sicurezza informatica un colabrodo, l’innovazione tecnologica un ricordo. Invece tutto sommato tablet e smartphone due anni dopo sono diversi che due anni prima, la potenza di calcolo dei computer continua a crescere, Intel non è diventata un’Alitalia e i consumatori sono ragionevolmente soddisfatti dei device che hanno continuato a cambiare. 

Mettersi a produrre semiconduttori non è esattamente come aprire una latteria. Servono investimenti ingenti, che devono essere coerenti con una strategia aziendale e dunque riflettere valutazioni ponderate sull’andamento della domanda. I fautori dell’intervento pubblico sostengono che proprio perché si tratta di investimenti tanto rilevanti, i privati abbiano bisogno di una «spintarella». Intel aveva pianificato una nuova fabbrica in Ohio, un progetto del valore di circa 20 miliardi di dollari, all’interno di nuovi investimenti previsti per cinque volte tanto (e dunque il doppio dei sussidi messi sul piatto del governo). Secondo i piani, avrebbe dovuto cominciare a operare a inizio 2025. L’apertura è invece stata rinviata al 2026. Fra le altre ragioni, c’è anche il fatto che l’azienda è ancora in attesa di capire che direzione prenderanno i sussidi pubblici: se potrà usarli per il nuovo impianto (che gode di un modesto sussidio del governo dello stato) e a quali condizioni. Nel dubbio, mentre non ha bloccato un investimento in New Mexico, in Ohio sta procedendo con tutta calma. Lo stesso accade con Taiwan Semiconductor Manufacturing, che ha posticipato un investimento da 40 miliardi in Arizona, in attesa di capire come verranno attribuiti i sussidi. 

Non c’è veramente nulla di nuovo sotto il sole. Mettere sul piatto ingenti risorse pubbliche significa trasformare, almeno in parte, la gara competitiva da una lotta per conquistare il favore del consumatore a una battaglia per guadagnarsi la benevolenza del decisore pubblico. La politica ha, giustamente, i suoi tempi che sono diversi da quelli del mercato. Ha un bel da dire chi esorta il governo a «fare qualcosa». Per fare qualcosa serve tempo ed è bene che sia così, visto che il processo democratico esiste per evitare che i potenti facciano quel che vogliono dei soldi degli altri. Questi tempi però sono in larga misura incompatibili con quelli delle emergenze vere e presunte. Così come francamente l’ossessione dei politici per vincere la gara dei sussidi non aiuta. 

Chi sa davvero se 52 miliardi di aiuti ai microchip sono tanti o pochi? Per chi potrebbe riceverli saranno sempre pochi. Ma quali valutazioni sono state falle per arrivare a quella cifra? Una negoziazione politica è una buona alternativa alle stime imperfette ma più rigorose che tentano gli investitori privati? Tutto questo alimenta il maggior nemico degli investimenti privati: l’incertezza. Se chi investe sa che lo Stato fa l’arbitro, e non il giocatore in partita, può scegliere serenamente dove, come e sulla base di quali valutazione operare. Ma se aspetta che lo Stato si metta la maglia e si decida a entrare in campo, le sue prospettive cambiano e, di conseguenza, i tempi si allungano. 

Non è vero che serve uno «Stato amico» per stimolare gli investimenti: basterebbe avere la ragionevole sicurezza che lo Stato non sia amico di qualcun altro. A scrivere queste cose nel 2024, e in Italia, si ha una sensazione sgradevolissima. Sono cose che sappiamo perché l’esperienza del nostro Paese e delle nostre aziende è precisamente quella. Gli americani hanno l’attenuante di avere avuto, fino a tempi recenti, uno Stato meno invasivo. Noi no. 

da L’Economia del Corriere della Sera, 4 marzo 2024

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