"Stato essenziale, società vitale" Risorse e Sud nell'Italia che verrà

Un estratto del libro di Alberto Mingardi e Maurizio Sacconi

27 Dicembre 2022

Il Quotidiano del Sud

Argomenti / Economia e Mercato

“Stato essenziale, società vitale. Appunti sussidiari per l’Italia che verrà”, appena pubblicato, è il nuovo libro di Alberto Mingardi e Maurizio Sacconi; Professore associato di Storia delle dottrine politiche allo IULM di Milano e direttore dell’Istituto Bruno Leoni, di cui è stato uno dei fondatori, il primo; già Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, il secondo, attualmente presidente della associazione “Amici di Marco Biagi” e collaboratore del think tank ADAPT.

Una riflessione sulle emergenze (pandemia, guerra, crisi energetica, inflazione e recessione), a cui si è risposto allargando il perimetro dello Stato, sulle risorse e sul peso che torneranno ad avere i vincoli di bilancio.

In questo libro, gli autori provano a offrire una prospettiva dissonante, rispetto a quella dominante negli ultimi anni. Si rivolgono in particolare ai decisori pubblici di una stagione difficile che potrebbe sollecitare il coraggio della discontinuità. Per gli autori, le politiche non hanno solo effetti finanziari, ma anche culturali. Mettono in campo, cioè, incentivi che condizionano il comportamento delle persone. Una società responsabile non può essere una società dipendente dai pubblici poteri. Il desiderio di sicurezza può trovare soddisfazione non nello Stato pesante ma in un ritrovato dinamismo della società italiana: che a sua volta non può prescindere da uno Stato diverso. Più leggero e più affidabile.

Di seguito, in anteprima, il capitolo dal titolo “Il Mezzogiorno come unico bacino off shore”.

***

L’Italia continua ad essere un Paese segnato da profondi divari territoriali. Il prodotto interno lordo per abitante meridionale è oggi circa il 55% della corrispondente quantità centro-settentrionale. Era circa il 58% dieci anni fa, poco meno del 59% vent’anni fa e circa il 60% mezzo secolo fa.

Per sfuggire alla morsa che la stringe da almeno un paio di decenni -ridotti tassi di crescita della produttività ed elevato debito pubblico l’Italia ha assoluta necessità di tornare a crescere, nel lungo periodo, almeno quanto i suoi principali partner europei. Perché ciò avvenga il Mezzogiorno dovrebbe crescere più del Centro-nord del Paese, colmando la distanza che li separa. Ha senso pensare che ciò possa accadere proseguendo con le stesse politiche che questa separazione hanno prodotto? Ha senso affidare ancora allo Stato pesante la speranza dello sviluppo?

Purtroppo anche in tempi recentissimi non si sono avute grandi innovazioni nel merito e nel metodo. Anzi, il reddito di cittadinanza è stato disegnato a taglia unica e in termini così generosi da alimentare passività e lavoro sommerso proprio lì ove vorremmo stimolare il risveglio dal torpore.

L’ultima politica pubblica è stata poi disegnata attraverso i fondi del PNRR che riservano al Mezzogiorno una quota ampia delle risorse “territorializzabili” (40%, maggiore della quota della popolazione residente che è il 34%). Che lo Stato sia in condizione di spendere bene questi quattrini, non è così evidente. Nel recente Rapporto regionale Cerved-Confindustria sulle PMI si stimano in 50 miliardi di lire i fondi destinati al Mezzogiorno nel primo ventennio del secolo e ancora non spesi. Ed è lecito pensare che quand’anche i fondi disponibili fossero interamente spesi, non produrrebbero un incremento significativo e sostenibile nel tempo dei tassi di crescita. Questo è perlomeno quello che possiamo dedurre dall’esperienza storica.

La condizione sine qua non per riportare a crescere il Mezzogiorno è una radicale messa in discussione delle politiche regionali attuate a partire dalla cosiddetta Nuova Programmazione. Politiche i cui principi di fondo sono stati, purtroppo, in parte travasati nel PNRR. Anche e soprattutto per l’antica questione meridionale, occorre discontinuità nel rapporto tra i poteri pubblici e la società.

Questo significa ripensare la politica di coesione, un Moloch europeo che molti continuano a considerare uno degli aspetti più positivi della nostra appartenenza al club di Bruxelles: la carota, dopo tanti bastoni. Però anche le carote possono essere avvelenate. Un grande economista dello sviluppo, Peter T. Bauer, diceva che avere quattrini è l’esito, non la premessa, della crescita economica. Per anni si è continuato a pensare che trasferimenti volti ad accrescere la dotazione di capitale di una Regione “depressa” (o di un Paese “povero”) fosse quanto serviva ad accendere la fiammella dello sviluppo. Questa è tuttora l’ispirazione di molti interventi dall’alto, con un approccio dirigistico e assistenziale assieme come le politiche di coesione.

Qualsiasi confronto con l’evidenza disponibile è impietoso. Non è assolutamente possibile arrivare ad alcun risultato robusto, solido, che dica con chiarezza che i soldi stanziati per le politiche di coesione “sono stati e sono soldi spesi bene”. Al contrario, si arriva rapidamente alla conclusione, leggendo una serie di lavori scientifici di qualità, che ci sono dei punti di debolezza molto significativi in questo modello di intervento. Il disegno delle politiche di coesione è fragile, la loro struttura ha seri problemi statici, ed è sorprendente che di ciò non si discuta a fondo nel momento in cui continuiamo a destinarvi volumi ingenti di risorse. Al lordo del cofinanziamento stiamo parlando di un terzo del bilancio europeo!

Proprio il Mezzogiorno è l’esempio di due problemi che attengono alle fondamenta di questo approccio. Le politiche di coesione sono infatti incardinate sulle Regioni, come enti che beneficiano degli stanziamenti, e sul partenariato, come forma d’elezione di queste risorse.

Per quanto riguarda le Regioni, abbiamo in realtà un’enorme territorio che vale 1/3 del Paese, i cui problemi sono totalmente interregionali. Pensare che i problemi del Mezzogiorno siano pugliesi, o calabri, o peggio baresi o napoletani, è irrealistico. Alla fine il linguaggio tende a segnalare il senso comune e il senso comune ci dice che esiste ancora una “questione meridionale”.

Il secondo punto è solo parzialmente distinto dal precedente ed è forse ancora più critico. La cosiddetta partecipazione del partenariato è una costruzione fantastica, in cui si immagina che i singoli componenti della società non abbiano i loro legittimi interessi. Il partenariato serve a trasportare nelle decisioni pubbliche che, per quanto possibile, dovrebbero essere orientate ad un progetto generale gli interessi particolari, non per farli convergere ma per soddisfarli separatamente. Attenzione, quindi: l’approccio non è “sussidiario” bensì, al contrario, è un modo con il quale la politica fagocita la società. Il partenariato diventa così l’ambiente ideale perché prevalga la politica di basso livello. A dirla tutta, la politica di coesione nel Mezzogiorno oggi è un canale di selezione della classe dirigente. Si viene eletti perché, come si dice nei comizi, “si portano i soldi” e poi, una volta eletti, si viene rieletti per lo stesso motivo.

È per questo che al Sud, più che altrove, lo Stato pesante si deve ritirare in termini di spesa corrente, tasse e regole. Il Sud è stato sin qui uno straordinario laboratorio naturale dei fallimenti dello Stato, ma può diventare l’ambito per testare un approccio diverso.

Anche in Italia esistono ormai delle “ZES”, Zone Economiche Speciali istituite con un decreto legge del 2017 nelle aree a maggiore ritardo del Paese. Le Zone Economiche Speciali sono porzioni depresse del territorio nazionale nelle quali sono applicate condizioni di favore e incentivi di natura economica e amministrativa per attrarre l’insediamento di nuove imprese. Sono una soluzione adottata da diversi Stati già a partire dagli anni Settanta e oggi se ne contano nel mondo oltre 5400 ripartite su 147 economie nazionali.

Dal punto di vista amministrativo la principale peculiarità è il principio dello one-stop shop, con l’impresa che ha un solo punto di contatto con le istituzioni, spesso esclusivamente digitale, per l’insediamento in ZES e con tempi autorizzativi ridotti o passaggi burocratici del tutto eliminati per le diverse fasi dell’investimento. I principali benefici economici sono legati a sussidi diretti per l’insediamento, a sconti di natura fiscale e crediti d’imposta oltre che al sostegno economico per la riduzione del costo del lavoro e ai regimi speciali doganali che eliminano dazi e accise sulle esportazioni e importazioni dalla ZES. Altro elemento rilevante è quello degli investimenti infrastrutturali che spesso sono agevolati dal punto di vista delle tempistiche di realizzazione con deroghe ai regimi ordinari al fine di dotare le aree del contesto di servizi necessario a garantire lo sviluppo degli insediamenti.

Tra il 2017 e il 2021 le ZES non sono mai partite, anche a causa dell’inerzia delle Regioni. Per questo, nell’ambito del PNRR ne è cambiata la governane, istituendo la figura del Commissario straordinario di governo che gestisce tutte le procedure relative agli insediamenti e l’organizzazione dell’attività di promozione. Lo strumento è dunque relativamente giovane, e in via di affinamento. L’impostazione rimane peraltro complessa in quanto continua l’incrocio di competenze tra Commissari di governo, Agenzia delle Entrate (delegata alla gestione degli incentivi), consorzi di emanazione regionale. Così come costituisce un limite di non poco rilievo il fatto per cui il Commissario può agire in deroga al Codice degli appalti solo per quanto riguarda i fondi del PNRR.

Con una migliore messa a punto dei poteri e con un maggiore coraggio nelle deroghe alle discipline generali, le ZES potrebbero essere un primo strumento per attrarre risorse private “vere”. Le stesse parti sociali potrebbero produrre, attraverso accordi di prossimità, speciali flessibilità controllate del lavoro così da incoraggiare ulteriormente gli investimenti. Stato e organizzazioni della rappresentanza di interessi dovrebbero realizzare insieme un “clima” complessivo di favore per le iniziative private.

Ma questo non può che essere il primo passo. Se, come abbiamo scritto, i problemi meridionali hanno caratteristiche comuni, più che “zone franche”, bisognerebbe immaginare un unico grande bacino off spore capace di attrarre investimenti perché caratterizzato da un più significativo differenziale fiscale e regolatorio. Vi sono infatti le condizioni oggettive perché l’Unione Europea possa accettare un tale regime in una parte del territorio nazionale, non dissimile da quello di altre aree europee marginali e bisognose di un impulso allo sviluppo. La deregolazione non implica affatto un affievolimento degli interessi collettivi da tutelare ma, anzi, diventa l’occasione di sperimentazione per l’Italia intera di metodologie e soluzioni nuove che potrebbero rivelarsi più efficaci. Non più, quindi, laboratorio di fallimenti dello Stato ma brodo di coltura di una imprenditoria nuova ed effervescente perché libera da oneri impropri.

Questo significa, ovviamente, anche rimettere al centro le persone. Il vero cambiamento, nel Sud come altrove, non può avvenire da alchimie istituzionali, di un tipo o di un altro. Sono le persone che debbono esserne protagoniste. Noi sappiamo che persone più creative, più sicure, più formate, più “europee”, più flessibili diventano protagoniste del cambiamento, attraggono investimenti.

Per questo bisognerebbe pensare a politiche per la formazione che non esibiscano le solite caratteristiche della coccarda universitaria ma siano effettivamente utili per riaccendere la società meridionale: incentivare i tirocini mediante voucher, sostenere la transizione dalla scuola al lavoro tramite l’apprendistato, concentrare le sedi universitarie per creare poli di eccellenza e non illudere i giovani con la possibilità di conseguire dietro casa una laurea, dispendiosa come investimento di tempo e risorse ma che nulla vale nel mercato del lavoro; sostenere il privato che voglia finanziarie borse di studio “meritocratiche” per studiare non necessariamente nel giardino di casa.

L’idea di fondo è che proprio nel Sud lo Stato debba fare il primo passo indietro, determinando le regole del gioco che consentano alla società di entrare in campo. Sapendo che se poi l’esperimento funziona, nulla vieta (e anzi equità imporrebbe) di estenderlo all’intero Paese.

Analogamente si potrebbe sperimentare nel Mezzogiorno un “premio per il lavoro” con lo scopo di incentivare l’attività delle persone. Si tratta di una forma di imposta negativa (sotto un certo imponibile anziché pagare si riceve un rimborso proporzionale all’imponibile stesso) sul modello dell’earned income tax credit introdotto negli Stati Uniti già dall’epoca di Gerald Ford, importato poi in Inghilterra (da Blair) e in Francia (da Raffarin), oltre che più recentemente dal governo conservatore svedese. La misura dovrebbe riguardare solo giovani sotto i trent’anni con un reddito da lavoro anche autonomo o part-time inferiore a una soglia stabilita ed escludere quindi chi un reddito non ce l’ha. Una prospettiva responsabile alla solidarietà comporta che, fra i tanti che hanno bisogno, venga privilegiato chi fa qualcosa per meritarlo. Non dovrebbe essere percepito in modo permanente ma soltanto per i primi due periodi di imposta in cui un ragazzo entra nel mondo del lavoro: il salvagente serve per imparare a nuotare, non per stare passivamente a galla. In attesa di una riforma organica del fisco (che è e dovrebbe essere l’orizzonte di medio termine), attraverso una misura del genere si darebbe un segnale ai giovani e si proverebbe a fare emergere un po’ di sommerso, senza ricorrere agli illusori metodi polizieschi.

Da Il Quotidiano del Sud, 27 dicembre 2022

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