Sei lettere sull'Italia – La denuncia di Pareto

Nei testi ora in italiano, curati da Alberto Mingardi, l'economista documenta gli abusi di potere e il carattere illiberale dello Stato crispino

21 Maggio 2018

Domenica-Il Sole 24 Ore

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Com’era l’Italia in quello che Croce nel 1928 chiamò “periodo crispino” (1887 1896)? Può dirsi che fiorirono in quegli anni ideali liberali, perché larga parte della classe dirigente si proclamava liberale? Benedetto Croce, nella sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915, osservava che Crispi «non mai […] si propose o vagheggiò un governo autoritario» e che anzi durante il suo governo si avviò la «trasformazione liberale del socialismo». Abbiamo ora, per la prima volta tradotta in italiano, la testimonianza di un osservatore di eccezione, Vilfredo Pareto (raccolta e presentata con grande cura, dottrina e intelligenza da Alberto Mingardi), che, in sei “lettere” scritte nel triennio 1888 -1891 a una rivista americana, presenta l’Italia crispina come un regime statalista, protezionista, militarista, corruttore.

Lasciamo la parola a Pareto. Egli spiega ai suoi lettori d’oltre Atlantico che «la borghesia regna e governa in Italia senza che nessuno la contrasti; il suo potere è così solido che non ha nemmeno bisogno di ricorrere alla forza per mantenerlo». «La borghesia è al potere e ne abusa» perché i partiti popolari sono divisi. Non è solo per il «rispetto per l’autorità fortemente radicato nelle persone», che il governo ha un ruolo dominante, ma anche perché «gli interessi di tutti i cittadini italiani dipendono dallo Stato centrale». «Nei piccoli paesi il governo controlla completamente le elezioni». La legge non è rispettata, tanto che vengono istituite nuove tasse senza autorizzazione legislativa e arrestate persone per solo ordine della polizia, senza decisione dei giudici. I funzionari governativi non possono essere perseguiti, quando violano la legge, perché solo i ministri possono farlo, mentre «la magistratura è sostanzialmente dipendente dal potere esecutivo». «La maggioranza dei borghesi è indifferente […] fintanto che il numero dei posti pubblici messi annualmente a disposizione dei loro figli non diminuisce, fintanto che possono continuare ad arricchirsi grazie al protezionismo, a speculazioni il cui conto viene presentato a tutto il Paese, e a monopoli garantiti loro dal governo, e perché vengano date loro a spese dello Stato tutte le ferrovie che desiderano». Tra i sostenitori del governo e il governo «si stabilisce una sorta di scambio di favori: quest’ultimo lascia loro avere i denari dei contribuenti, mentre loro mettono al suo servizio la loro influenza in tutto il paese». Continua Pareto dicendo che Crispi non era stimato neppure dai suoi sostenitori: «costoro lo hanno sostenuto semplicemente perché era al potere e perché avevano bisogno di lui o per i propri affari privati o per difendere il partito conservatore contro i radicali».

Due delle sei “lettere” di Pareto riguardano la questione meridionale. Pareto osserva che «le condizioni sociali ed economiche della popolazione nella parte settentrionale della penisola sono molto diverse da quelle che prevalgono nella parte meridionale, incluse le isole, Sicilia e Sardegna». Un divario simile si trova solo in Irlanda. Il mezzogiorno è oppresso dalla borghesia, che pratica l’usura. L’unica opposizione è quella del brigantaggio, «fenomeno sociale, non politico». Milano, Genova, Torino hanno una classe lavoratrice che «sente e pensa come in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti». Nel Sud, invece, «la borghesia e la nobiltà sono strapotenti».

Quando scrive questo violento atto di accusa contro l’autoritarismo crispino, Vilfredo Pareto è un quarantenne ingegnere (era nato nel 1848), lavorava a San Giovanni Valdano, dove era stato anche consigliere comunale dal 1876 al 1882, nonché candidato senza successo alla Camera dei deputati. Era direttore generale della Società ferriere italiane ed aveva stretto legami con l’ambiente intellettuale e politico fiorentino. Proprio negli anni in cui scrisse quelle lettere conobbe il grande economista Maffeo Pantaleoni, con il quale conserverà un rapporto stretto anche dopo, e nel 1893 si trasferirà a Losanna, dove iniziò la sua carriera più nota, dando contributi importanti sia all’economia e alla teoria economica, sia alla scienza politica e alla sociologia.

Le “lettere” paretiane (veri e propri lunghi articoli, da corrispondente estero), scritte nella lingua francese, quella che gli era più familiare, vennero tradotte in inglese dal direttore della rivista alla quale erano destinate o da suoi collaboratori, e vengono ora pubblicate per la prima volta in italiano grazie ad Alberto Mingardi, il quale le ha accuratamente presentate e annotate, ricostruendo l’ambiente di un gruppo individualista, anti-interventista e anti-statalista di Boston, allora il vero centro intellettuale degli Stati Uniti, un gruppo denominato “gli anarchici di Boston”, ispirato dall’azione di Benjamin Tucker, un attivissimo organizzatore di cultura. Tucker animò e diresse dal 1881 al 1908 la rivista «Liberty», alla quale erano destinate le lettere paretiane, oltre a pubblicare libri importanti, di politici e di scrittori, come Burke, Spencer, Wilde e Zola.

Su «Liberty» l’attenzione di Pareto era stata attirata da Sophie Raffalovich, autrice nel 1888 sul «Journal des Économistes» (al quale Pareto aveva collaborato) di un articolo intitolato «Gli anarchici di Boston» (ora in appendice a questo volume), nel quale spiegava che l’ideale del gruppo americano era la «distruzione dello Stato», per affermare la «sovranità individuale», un ideale manchesteriano in contrasto con quello dei socialisti. Evidentemente colpito dal resoconto della Raffalovich, Pareto si offrì di scrivere una serie di “lettere dall’Italia”.

Perché sono importanti questi scritti paretiani e perché è meritoria la presentazione che ne ha fatto Mingardi? Da un lato, perché queste lettere contengono le prime riflessioni di scienza politica di uno dei padri della teoria delle élite. In queste pagine Pareto fa riferimento a concetti che non erano certo comuni in quegli anni, come «classe dirigente» e «classe che regge il potere» e adopera costantemente un metodo comparativo. Dall’altro lato, perché le critiche di Pareto alla «borghesia funzionariale», all’«ignoranza del popolo» (dal quale fa dipendere «quasi tutti i mali della società»), allo statalismo crispino, al carattere illiberale dello Stato crispino, permettono di capire i motivi per cui il fascismo, trent’anni dopo, potette utilizzare tante istituzioni dell’Italia postunitaria, piegandole a sé e valendosi dei suoi funzionari. Gli anni 1901-1910, nei quali, secondo la ricostruzione crociana «si attua l’idea di un governo liberale», non furono sufficienti per mutare la natura dello Stato nato dall’unificazione. E la recente poderosa ricostruzione di Guido Melis (La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il Mulino) sta lì a dimostrare la disperata conclusione con la quale termina il saggio introduttivo di Mingardi sulla «corruzione e cialtroneria» come tratti costanti della classe dirigente italiana.

Vilfredo Pareto, L’ignoranza e il malgoverno. Lettere a “Liberty”, a cura di Alberto Mingardi, Liberilibri, Macerata, 2018

da Domenica – Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2018

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