Se ne vanno al "fronte" i Ragazzi del '99

Entra nelle università la generazione-specchio di quella che, nel 1917, veniva chiamata in trincea

2 Ottobre 2018

La Provincia

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

In questi giorni riprendono le lezioni nelle università e per la prima volta entra nelle aule la generazione di quanti sono nati nel 1999. C’è qualcosa di suggestivo in tutto ciò, dato che un secolo fa i coetanei maschi di questi giovani venivano chiamati alle armi per andare a uccidere e morire nelle trincee. Passarono alla storia come i “ragazzi del `99”: una generazione che vide molti di loro perdere la vita e altri tornare a casa mutilati. Quei diciottenni provenienti dalla Lombardia, dalla Sicilia e da ogni altra regione furono costretti a subire un destino terribile a causa delle ideologie dominanti e del cinismo del ceto politico.

Non è facile vedere analogie tra due mondi tanto lontani. Il ventesimo secolo ha modificato lo scenario nel quale viviamo: due guerre mondiali hanno causato moltissime vittime, ma poi si è avuto uno sviluppo che, accompagnato dal declino delle frontiere, ha permesso all’umanità di vincere molte sfide. Grazie alla crescita impetuosa favorita dalla globalizzazione, la fame non è più il primo dei problemi dell’umanità e anche i livelli di scolarizzazione sono cresciuti ovunque.

Il Novecento è stato il secolo di ogni estremismo, ma al tempo stesso esso ha screditato i totalitarismi del passato. In un formidabile romanzo di Erich Maria Remarque, “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, un professore di liceo tedesco nutrito di miti nazionalisti spinge alcuni liceali ad andare volontari in guerra. Sui campi di battaglia troveranno una realtà assai diversa da quelle che avevano idealizzato.
I giovani del nostro tempo sono differenti. Lo sviluppo economico degli ultimi settant’anni ha fatto sì che abbiano potuto accedere agli studi giovani provenienti da qualsiasi ceto sociale. L’università di massa è il risultato di trasformazioni profonde, legate all’esigenza di avere competenze nuove e adatte alla società post-industriale.

Molti sottolineano come l’accesso quasi generalizzato agli studi superiori abbia abbassato il livello medio dei corsi, ma questo scadimento della qualità è probabilmente il frutto di un’ampia serie di fattori, connessi al declino del ruolo della cultura e all’emergere di una società centrata sulle immagini. I giovani che iniziano ora i loro corsi universitari sono nati avendo due universi di fronte a loro: quello fisico e quello virtuale (fatto di siti e social), così che la loro esistenza è caratterizzata da una costante interconnessione. È fatale che il tempo che hanno trascorso a chattare o giocare con i videogiochi sia stato tolto alla lettura dei “Tre moschettieri” o dei “Fratelli Karamazov”.

Nell’arco di un secolo tutto è mutato, ma è anche possibile riconoscere persistenze. In particolare, lo scenario culturale all’interno del quale i giovani s’affacciano allo studio della medicina o del diritto è dominato da tendenze che in parte ripropongono le ideologie del secolo scorso. Nella politica mediatizzata che ora caratterizza la scena pubblica, in effetti, c’è qualcosa di antico.
Se un secolo fa la rivoluzione marxista d’Ottobre suscitò in tanti l’illusione che si potesse “fare come in Russia”, oggi vediamo imporsi un populismo che contrappone una società del tutto innocente ed aristocrazie interamente corrotte.
Sull’altro fronte, il sovranismo imperante ripropone logiche autarchiche: stavolta non per affermare il dominio dell’uomo bianco negli altri continenti, ma per isolarci dal mondo. Socialismo e nazionalismo probabilmente hanno fatto il loro tempo, ma è pur vero che molto di quanto promettevano attrae l’umanità pure ora.
In questo senso, oggi abbiamo una generazione che entra in università avendo a Roma un governo giallo-verde che intreccia elementi di destra e di sinistra: quando molte cose sono cambiate e al tempo stesso tanti tratti ideologici persistono. Il classismo, lo sciovinismo, l’odio di classe, l’egualitarismo, il protezionismo, l’intolleranza razziale e il parassitismo assistenzialista hanno dominato a lungo la società: è normale che in qualche modo continuino a essere tra noi. Chi adesso prevale in politica, la generazione dei Di Maio e dei Salvini, ha solo avuto la capacità d’interpretare meglio le domande provenienti dai concittadini: nipoti o pronipoti di chi stravedeva per Mussolini o per Stalin.

Per giunta, in questa nuova generazione di matricole è sempre più alto il numero di quanti hanno genitori stranieri. Ne discende che i cambiamenti conosciuti dalla struttura sociale contribuiscono a rafforzare taluni tratti identitari, con conseguenze evidenti. La politica vive spesso attorno al contrasto tra i “noi” e i “loro”, e una società etnicamente divisa offre formidabili opportunità ai politici in cerca di facili capri espiatori.
Non siamo necessariamente all’alba di un’altra guerra mondiale. È però bene sapere che solo se questi giovani sapranno elaborare valori ispirati al rispetto per l’altro e al pluralismo sarà ragionevole attendersi un futuro migliore. Il rischio di una catastrofe, ad ogni modo, è sempre da tenere in debito conto.

Da La Provincia, 2 ottobre 2018

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