Anche il Rapporto annuale Censis presentato ieri racconta l’Italia come un paese invecchiato. In senso figurato, prima ancora che demografico.
Il primo dato del Rapporto è l’aumento vertiginoso del debito pubblico. Non è un problema solo italiano, ma di tutte le economie avanzate. Il mal comune, in questo caso, non dimezza lo sconforto. Sul bilancio, in avanzo primario da anni salvo il periodo della pandemia, grava il costo degli interessi, che – secondo il Rapporto – superano l’intero valore degli investimenti pubblici. Se così è, vuol dire che lo Stato spende più per ripagare i suoi creditori, i quali sono prevalentemente all’estero, che per assicurare beni durevoli alla sua popolazione. Insomma consuma, anche solo per interessi sul debito, in misura maggiore di quanto non investa sul futuro.
La teoria del ciclo di vita che valse a Franco Modigliani il premio Nobel ha indicato che le persone, durante la fase lavorativa attiva, mettono nel cassetto una parte dei loro guadagni da usare quando saranno anziani e smetteranno di lavorare. In parole povere, da adulti si accumula ricchezza mentre da anziani si erodono i risparmi.
Se volessimo applicare questa teoria allo Stato, dovremmo dedurne, appunto, che quello italiano è entrato nella fase della vecchiaia: cresce il debito, e quindi l’erosione della ricchezza, mentre l’economia ha smesso di crescere da molti anni. E ha smesso di crescere non solo perché stiamo invecchiando. Per anni siamo vissuti nell’illusione che le risorse pubbliche fossero infinite. Ogni dubbio in merito viene ancora sdegnosamente liquidato dai predicatori del debito auto-ripagante. Ma aver ritenuto da molto, troppo tempo che il debito non costituisca un problema ha logorato dalle fondamenta i presupposti stessi del welfare, senza che se ne avesse la giusta percezione. Come se si fosse scavata una galleria nella sabbia, destinata – con questi ritmi di mancata crescita e denatalità – a ricaderci sopra.
Una simile illusione ha compromesso il ruolo stesso dello Stato come fornitore di servizi pubblici, di benessere, di pari opportunità, perché non si è dimostrato in grado di onorare i suoi impegni, allo stesso ritmo con cui li aumentava. Non stupisce più di tanto, quindi, che gli italiani – sempre secondo il Censis – stiano avendo sempre meno fiducia nella democrazia e ammicchino alle autocrazie, o almeno a quelle altrui. C’è infatti una connessione tra non credere ai riti e alle forme della propria democrazia (il voto, i partiti, il Parlamento) e ritenere che i regimi illiberali degli altri siano più adatti alle tensioni che stiamo vivendo. Disillusi dalla prima, si può restare in un certo senso colpiti dalla forza con cui avanzano i secondi – come la Russia, la Cina, la Turchia – e con cui si affermano mutamenti politici che, all’interno delle stesse vecchie democrazie, conducono a un’arroganza sempre più ostentata. Si pensi a Orban, Trump e Netanyahu.
Anche questa fascinazione è un sintomo di senilità, spirituale prima ancora che demografica. Sicurezza e consapevolezza di sé, fiducia verso il domani, curiosità, spirito di dialogo quando non di polemica sono caratteri della giovinezza e dell’età adulta, ma sono anche ciò su cui le società aperte e democratiche devono necessariamente basarsi. Al contrario, la chiusura nelle proprie abitudini, la certezza di non doverle cambiare, la necessità di un ambiente protetto e al riparo da qualsiasi novità a qualsiasi costo, sono propri di una fase avanzata dell’esistenza ma anche di un’età della paura. Sono, per questo, le più immediate promesse di chi antepone l’ordine alla libertà.
Abbiamo paura che un robot ci rubi il posto di lavoro, che un immigrato occupi il posto letto in ospedale, che l’intelligenza generativa si prenda la nostra fantasia. Nelle democrazie, le idee competono. Nelle autocrazie vince chi, mostrandosi forte e aggressivo, baratta la libertà dei cittadini con la presunta protezione di governo. Qualcosa che in tempi difficili può pericolosamente piacere, specie a chi non ne deve subire le conseguenze dirette.