Se il protezionismo Usa inciampa sui video di TikTok

Perché la legge che bandisce l’app asiatica rischia di diventare un boomerang


22 Aprile 2024

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Diritto e Regolamentazione Economia e Mercato

Una delle frasi più ripetute negli ultimi anni è che «quando qualcosa è gratis il prodotto sei tu». Dovrebbe spiegare l’economia dei social network. Come ricordava Franco Debenedetti qualche anno fa, è la stessa cosa che si diceva della televisione generalista. Berlusconi «regalava» le serie americane e i cartoni animati giapponesi, perché in questo modo ci «obbligava» a sorbirci la pubblicità. Piccolo ma non insignificante dettaglio: se non ci garbavano la carne in scatola o i frizzy pazzy, restavamo liberi di lasciarli al supermercato. «Profilare» i clienti per offrire loro prodotti che possano gradire è un’attività antica come il commercio e non sempre Amazon la svolge in modo più efficace dei librai di quartiere.

Un conto sono le giuste cautele nel diffondere informazioni personali o fotografie private attraverso la rete. Altra cosa è pensare che tutti i dati siano sempre «sensibili» e possano venire piegati agli usi più turpi. Sapere che Giovanni preferisce il vino rosso al vino bianco o che Lucia ha un gatto e non un cane serve a proporre loro offerte che possano interessare loro, ma è improbabile che aiuti a conquistare il mondo. Gli esperti di geopolitica, che al gioco delle tre tavolette battono persino gli economisti, sono però riusciti a convincerci del contrario.

E’ questo il contesto nel quale il Congresso Usa, dopo alcuni tentativi andati a vuoto, ha votato il Protecting Americans from Foreign Adversary Controlled Applications Act, che mira a impedire agli americani di usare Tiktok sul loro smartphone. La norma è stata approvata a larga maggioranza: 352 contro 65. Ora passa al Senato. Fra i pochi che hanno votato contro, repubblicani e democratici che agli antipodi ma che restano affezionati all’idea della libertà d’espressione, come il repubblicano Thomas Massie e la democratica Alexandria Ocasio Cortez.

La legge renderebbe impossibile scaricare o aggiornare qualsiasi social media definito come «applicazione controllata da un avversario straniero»: tali App non potrebbero operare direttamente né essere ospitate su siti Usa. I foreign adversaries americani sono, oggi, Cina, Corea del Nord, Russia e Iran. Perché una app sia ritenuta «controllata» da tali Paesi, basta che l’impresa che la gestisce soddisfi almeno uno di questi tre requisiti: avere la propria sede legale in uno di questi Paesi; avere fra i propri azionisti per almeno il 20% uno di quegli Stati; o essere variamente sottoposta a «direzione o controllo» da parte dei loro governi. Quest’ultimo requisito apre il vaso di Pandora.

Tiktok è per il 60% di grandi fondi come Blackrock, per il 20% dei fondatori (cinesi) e per quel che resta dei suoi dipendenti. La Cina ha investito invece in Douyin, la versione cinese di Tiktok, per l’1% del capitale. Se per dire che un’azienda è sottoposta a «direzione e controllo» da parte di uno Stato non si guarda «solo» alla proprietà, allora può valere tutto o quasi. E’ vero che negli Stati Uniti i tribunali sono meno compiacenti col legislatore di quanto non siano altrove, ma se i consumatori non potessero accedere a una app anche solo per mesi, è improbabile che resterebbero calmi e sereni ad attendere che tornasse disponibile. Vale pure per Tiktok, che oggi viene usata da 170 milioni di americani.

I difensori della norma sostengono che non si tratta di una forma di censura, poiché Bytedance avrebbe sei mesi per disinvestire. Se ti costringo a vendere, qualcuno si prepara a comprare a buon mercato: è il caso dell’ex ministro del tesoro Steven Mnuchin, che lavora a una «cordata americana» per acquistare la App affinché possa continuare a operare in territorio statunitense. Il protezionismo è mosso da interessi molto concreti. Da una parte, i concorrenti che faticano a tenere il passo del social cinese, costruito attorno a un algoritmo diverso da quelli della «galassia Meta» e popolare soprattutto fra i giovanissimi (com’era Instagram dieci anni fa). Dall’altra, investitori che vedono un’opportunità creata dal legislatore e ci si fiondano.

Pare però che la Cina cercherebbe a sua volta di impedire che con Tiktok si venda anche il suo algoritmo: Mnuchin comprerebbe, dunque, solo marchio e clientela.

È significativo che il Congresso non abbia scelto di passare per soluzioni intermedie, come forme di monitoraggio del trattamento dei dati, audizioni periodiche degli executive oppure tentativi di regolamentazione volti a circoscrivere quel che un’App può fare dei dati prodotti, con l’uso, dagli utenti. Quest’ultima strada avrebbe imposto di occuparsi sia di Tiktok sia dei concorrenti, che sono tutti statunitensi. Fra questi, l’unico che ha espresso preoccupazione per il provvedimento, in termini di libertà d’espressione, è stato Elon Musk, il patron di Tesla e ora padrone di X (ex Twitter). Assieme con lui, Donald Trump, che da Presidente anti-cinese voleva proibire Tiktok ma ora lo considera un veicolo importante se non altro perché non si è mai comportato con lui come Meta e Twitter, che invece ne avevano sospeso l’account.

Nel 1962, il Congresso approvò una legge che limitava la libertà degli americani di abbonarsi a periodici stranieri apertamente comunisti. Il clima era quello della crisi dei missili. Ma tre anni dopo la Corte suprema all’unanimità ritenne la norma illegittima e contraria al diritto degli americani di poter leggere ciò che desideravano. C’era una volta l’america…

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