Se Hollywood scopre il capitalismo

Al cinema è appena uscito «Steve Jobs» di Danny Boyle, la settimana prossima arriverà «Joy» di David O. Russell

22 Gennaio 2016

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Noi siamo le storie che raccontiamo. Le favole rielaborate dai fratelli Grimm ci mostrano l’Europa all’alba dell’età moderna: un posto crudele dove il lieto fine doveva riscattare bambini abbandonati nella foresta e fanciulle lasciate alla mercé di cacciatori prezzolati. Il grande romanzo vittoriano era un intarsio di valori: abnegazione, lealtà, amicizia, quel che serviva per assicurarsi che il mondo creato dalla rivoluzione industriale fosse davvero un mondo migliore.

Ai nostri tempi, è il cinema il più fedele sismografo dell’opinione pubblica. Per anni i film americani, prodotto «capitalistico» se mai ce n’è stato uno, ci hanno fatto scoprire un nuovo «cattivo», più temibile della Spectre di 007, più insidioso dell’Idra dei fumetti Marvel: la multinazionale. Grandi imprese di fantasia, come la Tyrell Corporation di Blade Runner, o storie vere di frodi e intrallazzi, alla Erin Brockovich, confermavano allo spettatore che dallo sterco del demonio non può venire nulla di buono.

Hollywood non è nota per essere la capitale mondiale delle Ong. Ma per avere successo, anche al cinema, bisogna incontrare il gusto del consumatore. E i cattivi tendiamo a preferirli col portafoglio gonfio.

Per carità: una storia non è bella, godibile, interessante, a seconda della morale. A furia d’attenersi a una morale preconfezionata, l’uomo d’affari è un cugino primo del truffatore, rischiamo però di perderci storie che varrebbe la pena raccontare.

Al cinema è appena uscito «Steve Jobs» di Danny Boyle, la settimana prossima arriverà «Joy» di David O. Russell. I protagonisti sono due grandi imprenditori: Steve Jobs e Joy Mangano, il creatore dell’iPad e l’inventrice del mocio, e già a pensarli l’uno accanto all’altro, l’iPad e il mocio, si capisce che cos’è l’economia di mercato. Nient’altro che un modo che gli esseri umani hanno scoperto, il migliore finora, per scambiarsi cose di cui si accorgono di avere bisogno.

Per secoli abbiamo celebrato la gloria di persone famose per aver fatto ammazzare un numero cospicuo di propri simili. Le nostre città sono piene di vie e piazze intitolate a signori con migliaia e migliaia di esseri umani sulla coscienza. Ci ricordiamo a malapena il nome del tizio che ha perfezionato la macchina a vapore e di quell’altro che ha inventato la lampada a incandescenza. Eppure hanno cambiato la vita di noi tutti ben più di Robespierre o del cancelliere Bismarck.

Far denaro è sempre stato considerato un’occupazione volgare. Il mocio: roba per pulire i pavimenti. E invece anche dietro una scopa per pulire i pavimenti c’è la grinta di una giovane donna che combatte le avversità e il paternalismo (aiuta che si tratti di Jennifer Lawrence), per cogliere una necessità di milioni di altre donne che nessuno prima era riuscito a intuire.

La Mangano della Lawrence è un essere umano magnifico, il Jobs di Fassbender è un genio egotista. Come non dobbiamo chiudere gli occhi sulle nequizie dei cosiddetti grandi della storia, neppure avrebbe senso idealizzare gli imprenditori. Ma è bene comprendere quanta determinazione serve, per realizzare «cose» che poi diventano per tutti di uso quotidiano.

Non è solo questione di «tecnica», non è solo «ricerca». Una scimmia che prema a caso i tasti di una macchina da scrivere potrebbe riuscire a comporre un testo identico alla Divina Commedia: basta che abbia un tempo infinito. Un ministero che finanzi qualsiasi progetto di ricerca e sviluppo potrebbe riuscire a produrre una innovazione paragonabile all’iPad: basta che abbia tempo e soldi infiniti.

La tecnologia ci rende possibile fare cose prima impossibili, però solo se qualcuno osa immaginarle per primo. E se le immagina non come astratti programmi di ricerca: ma come oggetti, come prodotti che incontrano esigenze (domande) specifiche.

È un talento particolare. La Joy Mangano bambina non sognava il principe azzurro: ma un posto tutto suo, dove inventare cose bellissime. «E chissà, un giorno il principe e la principessa m’inviteranno a cena perché le hanno apprezzate anche loro».

Diciamo la verità: spesso ci piace vedere sul banco degli imputati quelle persone che da bambini sognavano di «inventare cose bellissime» e da grandi ci hanno provato. Senza di loro, però, la nostra vita sarebbe sicuramente più brutale e forse anche più dura e più breve. Se Hollywood continua a raccontarci le loro storie, magari finalmente lo capiremo.

Da La Stampa, 22 gennaio 2016

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