I salvataggi pubblici industriali e finanziari componente integrante del Sistema Italia

Per queste operazioni il Paese ha speso ogni anno lo 0,2% del proprio prodotto


8 Marzo 2024

Il Sole 24 Ore

Nicola Rossi

Argomenti / Economia e Mercato

A Taranto l’Ilva. Nell’Avellinese, l’Industria Italiana Autobus. A Milano Trussardi. In prospettiva, a Bologna, La Perla. L’agenda dei salvataggi è fitta come non mai e non conosce soste né limiti (geografici o settoriali che siano). E non da oggi. Il punto è che, sul lungo periodo, la tecnica del salvataggio di Stato sembra caratterizzare lo sviluppo industriale del Paese molto più profondamente di quanto non possa dirsi per i rari fenomeni di “distruzione creatrice” schumpeteriani, che nel nostro Paese, se è quando sono avvenuti, sono avvenuti in un contesto di economia protetta e fondata, più che sulla volontà di attenuare le conseguenze del continuo ricambio che caratterizza le economie di mercato più dinamiche, sui meccanismi di stabilizzazione intesi a prevenire quel ricambio, anche attraverso i salvataggi.

Uno studio recente (Nicola Rossi, Italian Bailouts, 1861-2021, pubblicato in questi giorni dalla «Rivista di Storia Economica», edita da Il Mulino e parte integrante di una più ampia ricerca promossa dall’Istituto Bruno Leoni) riscrive la storia dei salvataggi industriali e finanziari di questo Paese sottolineando come, diversamente da quanto accaduto altrove, lungi dall’essere la conseguenza di eventi catastrofici, i salvataggi italiani sono stati – fin dall’Unità – e sono tuttora una componente integrante e pressoché quotidiana del panorama italiano. La prima società salvata è, nel 1866, la Società Generale di Credito Mobiliare. La prima impresa manifatturiera salvata è, nel 1887, la Società degli altiforni, fonderie e acciaierie di Terni, con un intervento pubblico da 27,7 milioni di lire di allora coordinato dalla Banca Nazionale del Regno e dal Credito Mobiliare Italiano.

I salvataggi pubblici italiani sono una componente tanto integrante e quotidiana da richiedere, fin dagli anni 10 del Novecento e fino ai nostri giorni, istituzioni dedicate – temporanee solo sulla carta – su cui si sono riversate ingenti risorse pubbliche. E non a caso, quindi, dietro i grandi salvataggi bancari intervenuti fra le due guerre o più recentemente in occasione della Grande Recessione, si è andata stagliando una miriade di interventi di dimensione minore, fino alle 32mila lire concesse nel 1937 alla Società Frigorifera Italia Centrale «per sistemare la situazione del marchese Bufalini». Certo, non registriamo oggi salvataggi come e quanti ne registrammo fra le due guerre o negli anni 70 e 80, ma la realtà è che – con buona pace dell’Unione Europea – di salvataggi continuiamo a parlare senza interruzioni.

La cultura del salvataggio – o anche solo l’idea che sia sempre meglio salvare qualcosa piuttosto che chiuderla e auspicare, o costruire policy in grado di favorire, la nascita di nuove imprese – è ampiamente diffusa in ogni periodo storico. In maniera minore, durante il Boom Economico in cui si registra quel poco che abbiamo conosciuto di “distruzione creatrice”. In quegli anni, l’eredità culturale riassunta nell’Iri non ha avuto soltanto la connotazione pianificatrice del nuovo, ma ha contribuito anche al protrarsi della teoria e della pratica dei salvataggi. Un esempio della profondità di questa cultura è rappresentato da Mediobanca che – riuscendo sempre a compiere salvataggi tecnicamente e finanziariamente ben funzionanti, come dimostra la serie storica dei suoi bilanci – ha espresso una visione pessimistica e stabilizzatrice, quella del suo visionario fondatore Enrico Cuccia, sulla qualità intrinseca degli imprenditori italiani e sul loro bisogno di essere assistiti sempre e salvati, nelle male grazie, comunque. Con ciò contribuendo a far sì che l’economia italiana non mutasse i suoi caratteri di fondo.

Si dirà che in molti casi si è chiesto ai più forti di occuparsi dei più deboli. Ma così non è. Quando si è chiesto a un qualche intermediario di intervenire e tirare fuori dalle secche questa o quella impresa, il risultato è stato sempre e solo uno: a distanza di qualche tempo si è dovuti correre a salvare l’intermediario stesso, crollato sotto il peso degli oneri conseguenti al suo malinteso “spirito di servizio”. Si dirà che così abbiamo salvato un patrimonio tecnologico e di conoscenze che altrimenti sarebbe andato disperso. Ma i numeri dicono che così non è: solo un caso su sei o su cinque corrisponde a questa istantanea. Si dirà che così abbiamo salvato posti di lavoro che altrimenti sarebbero scomparsi. Ma i numeri dicono che così non è: in un caso su due non abbiamo fatto altro che protrarre di cinque anni o forse poco più l’agonia delle imprese salvate. E quando così non è stato, si è trattato dei pochi casi di salvataggio effettivamente intervenuti a valle di situazioni di autentica emergenza. E dopo quei cinque anni o poco più? Semplice, si procede a un nuovo salvataggio. In un caso su due ci troviamo di fronte a salvataggi seriali. Etichettati ogni volta come «definitivi» ma, in alcuni casi, capaci di coprire l’intero ultimo secolo.

Per questa malintesa solidarietà, il Paese ha speso ogni anno, da centosessant’anni a questa parte, lo 0,2 per cento del proprio prodotto. Se avessimo fin da allora accantonato queste somme, corrisponderebbero oggi a 550 miliardi di euro ai prezzi correnti: qualcosa come il 20% del nostro debito pubblico attuale (che, al netto di questa posta, si attesterebbe intorno al 110% del prodotto). Relativi, certo, alle grandi operazioni di salvataggio imposte dalle condizioni esterne, ma conseguenti anche alla pletora di interventi minori non corrispondenti a nessuna situazione di emergenza.

Una pletora di interventi espressione di un comune sentire della collettività, in tutte le sue articolazioni (la classe politica, l’imprenditoria, i sindacati, i cittadini comuni). Vale quanto scriveva nel 1944 Donato Menichella, direttore generale dell’Iri dal 1934 al 1944, governatore della Banca d’Italia dal 1948 al 1960 e grande conoscitore della antropologia degli italiani: nel nostro Paese non consideriamo le cadute di una impresa o di una banca come «eventi normali della vita economica nella quale, come in quella degli individui alla prosperità può succedere l’indigenza, alla salute la malattia e la morte, sebbene come eventi di carattere straordinario, capaci di commuovere larghe sfere della pubblica opinione e quindi provocare rumore e dibattiti violenti sulla stampa, agitazioni nel Paese, inchieste, cadute di ministeri, e così via». Peccato che tutto ciò impedisca il normale e fisiologico ricambio che costituisce la linfa vitale di ogni economia di mercato. E con esso contribuisca a ridurre le nostre prospettive di crescita.

da Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2024

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