La riforma di Medicina va estesa alle altre facoltà. Utile un periodo di formazione generale prima di scegliere la propria strada nella vita
18 Agosto 2025
La Provincia
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Politiche pubbliche
La riforma dell’accesso a medicina, anche senza volerlo, potrebbe aver in qualche modo aperto la strada a un’idea nuova di università. Le regole adottate, in effetti, introducono un semestre “aperto” che formerà non solo i futuri medici, ma anche biologi, farmacisti, odontoiatri ecc. Solo dopo questa prima fase, infatti, verrà operata la selezione per medicina.
Sebbene in una forma embrionale, questa modalità di accesso ha generato qualcosa che può ricordare il college americano o, per meglio dire, il “liberal arts college”. Con questa formula, negli Stati Uniti, si indicano università molto focalizzate sulla prima fase degli studi e che intendono soprattutto formare. Offrono curriculum molto interdisciplinari, con classi di limitate dimensioni. In questi corsi non c’è l’ambizione di fare acquisire abilità professionali, ma invece s’intende aiutare ad avere un miglior bagaglio teorico.
Non sarebbe davvero male che anche l’università italiana adottasse qualche tratto del college statunitense, in cui non ci si indirizza subito a una professione, ma invece si lascia aperta la strada a più esiti. Lì ogni studente deve certo scegliere un “major”, ma in generale le lezioni puntano a disegnare un processo di crescita a largo spettro, in grado di aprire la mente e favorire scelte ulteriori più consapevoli.
Scelte forzate
In troppi casi dopo la maturità il giovane italiano opta per percorsi professionali di cui conosce assai poco. Lo stesso mondo del lavoro è consapevole di quanto siano molteplici le competenze di cui le imprese hanno bisogno: ed è chiaro che le università non potranno mai sostituirsi al “lavoro sul campo” che ha luogo nelle aziende stesse.
Quando si parla con gli imprenditori e con quanti si occupano di risorse umane emerge a più riprese la consapevolezza che la prima necessità è avere giovani con gli skill fondamentali: cultura, rigore logico e capacità di analisi, determinazione, consapevolezza della complessità.Le specifiche conoscenze di dettaglio si possono acquisire, e anche facilmente, ma solo se c’è questa base.
Il percorso del giurista
Dire college significa evocare quello che da noi è lo spirito del liceo. La differenza, però, è che una formazione come quella data, ad esempio, dall’Amherst College (dove tra gli altri hanno studiato i premi Nobel, per medicina e per la fisica, Henry W. Kendall e Harold E. Varmus) è di livello universitario e quindi porta il giovane ad affrontare la biologia, la storia oppure la matematica a un grado di difficoltà ben superiore. Se poi si considera in che maniera, negli Stati Uniti, si diventa un giurista ci si rende subito conto di come lo spazio per la formazione sia prevalente rispetto a quello della professionalizzazione.
Oltre Atlantico si accede alla Law School tramite un esame molto selettivo che non è focalizzato sul diritto, ma invece sulla logica, sul ragionamento analitico e sulla comprensione dei testi. La scuola in giurisprudenza, però, dura soltanto 3 anni (non 5 come in Italia) e vi si può accedere dopo aver conseguito un bachelor: solitamente in scienze politiche, storia, psicologia, filosofia ecc. Il caso, pur molto peculiare, degli studi giuridici è eloquente. Nel sistema universitario americano si reputa che non sia affatto uno spreco che il giovane si applichi a lungo su questioni di base. L’idea è che senza questo bagaglio culturale le nozioni più specialistiche servano assai poco.
Molti anni fa mi capitò d’insegnare agli studenti del primo anno di una scuola universitaria che preparava manager della pubblicità. Dovevo trasmettere qualche conoscenza fondamentale di teoria economica, e questo in un percorso di studi molto professionalizzante. Per attirare la loro attenzione durante il primo incontro facevo girare tra i banchi due volumi, chiedendo quale dei due poteva sembrar loro più utile: uno era un dialogo platonico e l’altro un manuale di videoscrittura. A quanti optavano per il secondo, evidenziavo come illustrasse l’utilizzo di un software assai vecchio e ormai in disuso.
Proposte
Questo non è punto da poco. Vi sono conoscenze magari necessarie ora ma già tra un anno molto meno (un esempio classico sono le norme tributarie), e altre che invece reggono nel tempo, dato che rinviano a competenze essenziali di cui – nel lavoro e non solo lì – c’è sempre un gran bisogno. Paragonato al college, ovviamente, il semestre aperto che vede assieme futuri medici, biotecnologi e farmacisti è certo poco cosa: sia per la durata, sia per lo spettro assai limitato delle facoltà coinvolte.
Sarebbe però utile ragionare a qualcosa di simile in altri ambiti (perché non far nascere un anno in condivisione tra filosofia, storia e letteratura, oppure tra economia e diritto?), in modo tale da permettere agli studenti di affrontare queste discipline in ambito universitario e con una diversa consapevolezza, prima di decidere che cosa si vuol fare “da grandi”.
Nel quadro normativo, attuale, questo purtroppo è impossibile. Da decenni l’università è uno degli ambiti più regolati: innanzitutto in virtù del valore legale del titolo di studio. Il sistema è talmente rigido che, se per un qualche motivo la pianificazione triennale lo vieta o lo scoraggia, nessuna università pubblica o privata può aprire nuovi corsi in giurisprudenza oppure in scienze politiche. Dato che questa è la situazione, la possibilità che veda la luce un percorso che adotti il meglio del college rimane assai remota; e questo è davvero un peccato.