Rileggere i mali d'Italia con Pareto

Recensione del libro curato da Alberto Mingardi e pubblicato da Liberilibri

14 Giugno 2018

Corriere della Sera

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Vilfredo Pareto, insieme con Gaetano Mosca e Maffeo Pantaleoni, è uno dei tre grandi nomi italiani dell’economia, della sociologia e della politologia a cavallo tra Ottocento e Novecento che oggi, per la loro grandezza, sono più noti che conosciuti. Chi, infatti, che non sia uno specialista, si avventura nella lettura del Trattato di sociologia generale (Pareto) o negli Elementi di scienza politica (Mosca) o prende in mano i Principii di economia pura (Pantaleoni)? Eppure, per la situazione in cui versa l’Italia, faremmo bene a riprendere in mano i libri dei nostri classici. Altrimenti non si potrà non dare ragione fin dal titolo proprio al volume di Pareto che la Liberilibri ha appena mandato in libreria: L’ignoranza e il malgoverno (pagine 216, €17). La tesi è tanto semplice quanto convincente: l’ignoranza della maggioranza degli italiani in materia di libertà economica e di influenza o intervento dello Stato nella società prima conduce all’ingrossamento e all’ingrassamento della classe politica e poi, attraverso il tramonto delle élites che non riescono a rinnovarsi, al declino dell’intero Paese. Vi viene in mente qualcosa?

Il testo è un fuori-testo dell’opera paretiana di cui si erano perse le tracce e che ora, grazie al lavoro di Alberto Mingardi, che firma l’articolata introduzione al libro, ritorna a vedere la luce in quella che, dopotutto, è sempre stata la sua veste di «Lettere dall’Italia», come ebbe a presentare ai suoi lettori Benjamin Tucker, direttore della rivista «Liberty», le missive dell’ingegnere della Società del Ferro del Valdarno. Le cose andarono così: Vilfredo Pareto leggeva un po’ di tutto e tra questo tutto anche il «Journal des Vilfredo Pareto Economistes», diretto da (1848-1923) Gustave De Molinari, sul quale lesse un articolo di Sophie Raffalovich (riportato in coda al libro) in cui la sorella dell’economista Arthur si spandeva in elogi per gli «anarchici senza bombe» che a Boston si riunivano intorno al sodalizio di «Liberty» con il motivato convincimento che l’intervento dello Stato nell’economia e nella società dovesse essere il più limitato possibile nell’interesse sia degli uomini sia dello Stato.

La lettura e l’idea di scrivere delle epistole dall’Italia per l’Italia e l’Europa in Pareto furono tutt’uno. Le scrisse in francese, sua lingua madre, e furono tradotte in inglese nella redazione di «Liberty». Le sei lettere, pubblicate tra il 1888 e il 1891, sono ora tradotte per la prima volta in italiano e hanno una loro importanza nello sviluppo del pensiero politico di Pareto.

La prima si concentra sulla tendenza dell’Italia ad assecondare la sbagliata economia protezionistica, mentre la seconda riguarda il «socialismo borghese» o di Stato, in cui il controllo e la guida dell’economia sono al servizio di chi comanda. La terza affronta il tema dei temi, il Mezzogiorno, e giunge alla conclusione che l’arretratezza meridionale è da imputarsi al fallimento delle sue classi dirigenti i «galantuomini» che hanno messo in pratica il programma del Duca d’Oragua nel romanzo I Viceré di Federico De Roberto: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri». Così la quarta missiva si concentra sulla differenza del senso civico tra Nord e Sud e qui Pareto mette in luce che l’idea di avere un potente decisore politico, che interviene e guarisce i mali della società, è una pia illusione. La quinta e la sesta lettera sono di fatto una critica della politica di Francesco Crispi, che per Pareto era né più né meno che l’emblema dei mali italiani: lo statalismo in economia, il militarismo in politica estera, il clientelismo negli affari interni. Ieri, oggi, domani.

dal Corriere della Sera, 14 giugno 2018

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