Referendum, test per Landini

L'irrigidimento dei contratti a termine ridurrebbe le assunzioni di chi ha competenze meno richieste, limitando le opportunità di crescita

5 Giugno 2025

Italia Oggi

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Alessandra Ricciardi

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

Con il sì ai quattro quesiti abrogativi del Jobs act «il mercato del lavoro italiano sarebbe più rigido. Questo significa, in teoria, maggiore protezione per i lavoratori. In pratica vuol dire più difficoltà per i lavoratori deboli», dice Alberto Mingardi, politologo dell’Università IULM, direttore dell’Istituto Bruno Leoni. E spiega: «L’irrigidimento dei contratti a termine disincentiverebbe l’assunzione di lavorati con competenze meno richieste, togliendo loro l’opportunità di formarsi nuove competenze, più appetibili, grazie a un impiego a tempo determinato». I referendum dell’8 e 9 giugno, che animano il confronto tra centrosinistra e centro destra, «sono, diciamolo, un test della leadership del segretario della Cgil Maurizio Landini. Che, fra i due litiganti Schlein e Conte, è il candidato premier naturale della coalizione di centro-sinistra».

Domanda. Professore, intanto lei andrà a votare?

Risposta. Ho molta simpatia per uno dei quesiti, quello che ridurrebbe i tempi per ottenere la cittadinanza. Ma il clima prevalente è ben diverso e, per quanto mi sembra vada applaudito il coraggio di +Europa nel proporre il quesito, credo sia veramente una sensibilità totalmente distonica rispetto all’opinione pubblica.

D. E quindi?

R. Quindi: o farò un atto di donchisciottismo politico, andrò al seggio e ritirerò una sola scheda. Oppure starò a casa. Deciderò domenica. Siccome sui giornali in questi giorni spadroneggia il moralismo elettorale, per cui pare che la qualità morale e umana delle persone si valuti dal fatto che vadano a votare oppure no, tengo a precisare che non c’è nulla di male neanche nel decidere all’ultimo minuto come comportarsi.

D. Sull’astensione come sa vi è molta polemica a sinistra, anche se i costituzionalisti hanno evidenziato che è perfettamente lecito astenersi in caso di referendum abrogativo.

R. Astenersi è lecito sempre. In democrazia è necessario rispettare le opinioni diverse e soprattutto coloro che quelle opinioni le esprimono, che noi le si condivida oppure no. Ma non è obbligatorio avere un’opinione così come non è obbligatorio gradire le pietanze presenti sul menù elettorale.

Nel nostro Paese, mezzo milione di nostri concittadini può proporre a tutti gli altri di votare su determinati temi, per abrogare una norma e in questo modo ripristinarne una precedente ovvero costringere il Parlamento a legiferare. Ne hanno pieno diritto. Ma il fatto che a loro una questione sembri di primaria importanza non significa che debba avere la stessa opinione il resto della società italiana.

Il meccanismo del quorum è un meccanismo sano. E lo dice uno che il primo voto che ha dato è stato al referendum del 1999. Il quorum non si raggiunse, il maggioritario non si consolidò, le leggi elettorali successive sono state quel che sono state.

D. Andiamo al merito. Quattro quesiti su 5 riguardano il Jobs act. L’obiettivo è dare più tutele per precari e sicurezza, dicono i sostenitori. Cosa cambierebbe se vincessero i sì?

R. Il mercato del lavoro italiano sarebbe più rigido. Questo significa, in teoria, maggiore protezione per i lavoratori. In pratica vuol dire più difficoltà per i lavoratori deboli. Negli ultimi anni la dinamica dell’occupazione ha visto “tornare di moda”, diciamo così, i contratti a tempo in determinato. Ciò significa che c’è richiesta di competenze che sono abbastanza scarse: gli imprenditori che si lamentano di non trovare collaboratori, nel racconto dei giornali. Poi ci sono tutta una serie di altre persone che, e la colpa non è certo loro, hanno competenze meno appetibili. Perché sono nuovi italiani, perché non hanno studiato, perché hanno preso percorsi formativi che si sono rivelati meno azzeccati di quanto sembrasse. Limitare il ricorso ai contratti a termine, per esempio, colpisce proprio loro.

D. Analizziamo i quesiti: il diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo, la determinazione del limite massimo all’indennità in caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese, l’obbligo di motivazione nei contratti a termine inferiori ai dodici mesi e la responsabilità solidale del committente. Perché sarebbero vecchie tutele?

R. Cambiare il regime relativo ai licenziamenti illegittimi, che non sono scomparsi dal nostro ordinamento, aumenterebbe l’incertezza, esaltando ancora di più il ruolo di giudici e tribunali, esattamente come l’abolizione del tetto agli indennizzi. L’irrigidimento dei contratti a termine disincentiverebbe l’assunzione di lavorati con competenze meno richieste, togliendo loro l’opportunità di formarsi nuove competenze, più appetibili, grazie a un impiego a tempo determinato. Immaginare una corresponsabilità del committente in caso di incidente sul lavoro è davvero curioso.

Se si parla di negligenze e di mancato rispetto delle normative, di chi è la responsabilità? Di una certa impresa o di chi le ha dato l’incarico? La maggioranza degli incidenti, purtroppo, avvengono nell’edilizia: dobbiamo immaginarci che un condominio assuma un consulente per verificare la compliance dell’azienda che sistema le piastrelle del terrazzo condominiale? Mi pare evidente che diminuirebbe il numero di condomini che sistema tetti e terrazzi…

D. Il PD chiede di abrogare parti di una legge che è stata una delle riforme bandiera dello stesso PD di qualche anno fa. Cosa è cambiato?

R. Il grande Mario Vargas Llosa distingueva fra una sinistra vegetariana, la sinistra riformista, e una sinistra carnivora, la sinistra massimalista. È una battaglia che in Italia è andata avanti a lungo, anche perché da una parte il PD è un partito a forte vocazione territoriale, radicalissimo in tre regioni, dove anche quando c’era ancora il PCI il fatto di avere “le mani in pasta” spingeva alla ricerca di compromessi e soluzioni pragmatiche. Dall’altra, è un partito che in alcune regioni non tocca palla per definizione e in quei contesti tende ad attrarre una militanza fortemente ideologizzata. Del resto, se non ho neanche la speranza di arrivare al governo, perché dovrei moderarmi?

Negli ultimi anni le cose sono un po’ cambiate. Sono diventati centrali i temi della politica dell’identità, del woke, del politicamente corretto. Che però in Italia diventano la riserva di caccia dei vecchi “movimenti”, quelli che una volta “boicottavano il Biscione”, poi divennero no global, poi facevano i vaffa day, quindi l’acqua pubblica, eccetera. È questa saldatura, fra temi chiamiamoli “culturali” contemporanei e vecchi movimenti, che condiziona oggi il ceto dirigente della sinistra.

D. Luca Ricolfi dice che a sinistra si occupano più di immigrati che di lavoratori.

R. E loro, a proprio modo, lo prendono sul serio e saltano sul carro dei referendum della CGIL. Ma questo non deve sorprenderci. Il fatto che le stesse persone abbiano cambiato il “ritornello” del proprio discorso politico non significa che siano cambiate loro. Tornano con piacere a suonare i propri greatest hits.

D. Il cambiamento riguarda anche il sindacato?

R. Mi sembra che questi referendum interessino soprattutto un sindacato. Sono, diciamolo, un test della leadership di Maurizio Landini. Che, fra i due litiganti Schlein e Conte, è il candidato premier naturale della coalizione di centro-sinistra.

D. Ha ragione però la Cgil quando dice che il numero dei precari è cresciuto ed è questa tipologia che porta su il numero complessivo di occupati. O no?

R. È un’osservazione che riguarda i dati Istat di marzo e di aprile. Ma sono stati i contratti stabili, negli ultimi anni, a guidare la crescita dell’occupazione.

D. I salari italiani si sono deprezzati rispetto a 20 anni fa ed aumentano le fasce di povertà. Segnali di cambiamento ne intravede?

R. L’Italia è un Paese fortemente integrato nell’economia internazionale e tutto ciò che indebolisce la globalizzazione indebolisce anche l’economia italiana. I salari italiani sono rimasti fermi mentre si alzavano quelli del resto del mondo perché è rimasta ferma la produttività. Come sempre, quando si parla di Italia si fa la media del pollo: c’è un pezzo della nostra economia, che ha accettato la sfida della concorrenza estera, in cui siamo diventati più produttivi.

E un altro, che riguarda beni e servizi consumati nel territorio nazionale, dove questo è successo molto poco. Parliamo soprattutto di servizi, buona parte dei quali controllati, oggi, da imprese pubbliche.

O riusciamo a far crescere la produttività oppure la stagnazione è nelle cose.

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