Carlos Rangel intervista F.A. Hayek

Un dialogo sugli errori del socialismo e i benefici del capitalismo

29 Novembre 2023

Istituto Bruno Leoni

IBL

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Carlos Rangel è l’autore di Dal buon selvaggio al buon rivoluzionario, un testo capitale per gli studi latinoamericani appena ripubblicato da IBL Libri. Friedrich von Hayek non ha bisogno per il nostro lettore di presentazione. Rangel lo intervista il 17 maggio 1981. Hayek è stato insignito col Premio Nobel nel 1974, Margaret Thatcher ha vinto le elezioni nel maggio 1979 e Ronald Reagan si è insediato alla Casa Bianca il 20 gennaio 1981. Sembra che qualcosa stia cambiando: nel mondo delle idee come in quello della politica. Hayek è spesso invitato a dare conferenze in giro per il mondo, anche in America Latina, e accetta gli inviti con generosità, compatibilmente con l’età e con le condizioni di salute. Ha recentemente pubblicato il terzo volume di Legge, legislazione e libertà nel cui poscritto adombra alcuni dei temi di La presunzione fatale, anch’essa appena ripubblicato da IBL Libri. Questa intervista è un’ulteriore testimonianza di quanto Hayek stesse riflettendo sulle questioni che poi costituiranno il filo conduttore del suo libro del 1988. Ci fa piacere dunque presentare al nostro lettore questo dialogo fra due eccellenti autori di IBL Libri. L’intervista è stata pubblicata originariamente nel giugno 1981 sul quotidiano venezuelano El Universal e successivamente sul sito del Cedice – Centro de Difusión del Conocimiento Económico.

***

Carlos Rangel: Gran parte del suo lavoro intellettuale è consistito in un confronto critico tra capitalismo e socialismo, tra il sistema basato sulla proprietà privata e sull’economia di mercato e quello basato sulla nazionalizzazione dei mezzi di produzione e sulla pianificazione centrale. Come è noto, lei ha sostenuto che il primo è nettamente superiore al secondo. Su cosa basa questa posizione?
Friedrich August von Hayek: Andrei oltre l’affermazione della superiorità del capitalismo sul socialismo. Se il sistema socialista si diffondesse, si scoprirebbe che non sarebbe più possibile fornire nemmeno un minimo di sussistenza all’attuale popolazione mondiale, per non parlare di una popolazione ancora più numerosa. La produttività che contraddistingue il sistema capitalista è dovuta alla sua capacità di adattarsi a un’infinità di variabili imprevedibili e all’utilizzo di un enorme volume di informazioni estremamente disperse tra milioni e milioni di persone (l’intera società), informazioni che quindi non saranno mai a disposizione dei pianificatori. Nel sistema dell’economia libera, si può dire che queste informazioni vengono continuamente immesse in una sorta di supercomputer: il mercato, dove vengono elaborate in un modo che non solo è schiacciantemente superiore, come lei ha detto, ma che è davvero incomparabile con la goffaggine di qualsiasi sistema di pianificazione.

CR: Ultimamente è diventato di moda tra i socialisti ammettere che l’abolizione della proprietà privata e dell’economia di mercato nei Paesi che hanno adottato il socialismo non ha prodotto i risultati attesi dalla teoria. Ma continuano a sostenere che un giorno, da qualche parte, ci sarà un socialismo che avrà successo. Un successo politico, perché non solo non è totalitario ma genera maggiori libertà rispetto al capitalismo, e un successo economico. Cosa ne pensa di questa ipotesi?
FAvH: Non ho alcuna riprovazione morale nei confronti del socialismo. Mi sono limitato a far notare che i socialisti si sbagliano nel trattare la realtà. Se si trattasse di contrapporre giudizi di valore, un punto di vista diverso dal proprio sarebbe in linea di principio rispettabile. Ma non si può essere altrettanto indulgenti con un errore così evidente e costoso. Quella massa di informazioni a cui ho fatto riferimento prima, e di cui il sistema dell’economia di mercato e della democrazia politica fa automaticamente uso, non esiste nemmeno tutta in un dato momento, ma viene costantemente arricchita dalla diligenza di milioni di esseri umani motivati dallo stimolo di una ricompensa per la loro intelligenza e il loro sforzo. Sessant’anni fa Mises dimostrò definitivamente che in assenza di un’economia di mercato non può esistere alcun calcolo economico. Si dice che Oskar Lange abbia confutato Mises, ma è difficile che l’abbia fatto, visto che non l’ha nemmeno mai capito. Mises ha dimostrato che il calcolo economico è impossibile senza l’economia di mercato. Lange sostituisce “contabilità” con “calcolo”, e subito vuole dimostrare che la contabilità, la tenuta dei conti, è possibile nel socialismo!

CR: Un’opinione molto diffusa è quella di credere che sia possibile mantenere i vantaggi dell’economia di mercato e allo stesso tempo realizzare un notevole grado di pianificazione per correggere i difetti del capitalismo.
FAvH: Si tratta di un’illusione priva di fondamento e di significato. Il mercato emette segnali molto sottili che gli esseri umani individuano a torto o a ragione, a seconda dei casi, in un processo che nessuno potrà mai comprendere appieno. L’idea che un governo possa “correggere” il funzionamento di un meccanismo che nessuno conosce è insensata. D’altra parte, quando si ammette la bontà dell’interventismo pubblico nell’economia, si crea una situazione instabile, in cui la tendenza a un intervento sempre più grande e distruttivo finirà per diventare inarrestabile. Naturalmente, questo non deve essere interpretato nel senso che l’uso della proprietà non debba essere regolamentato. Ad esempio, è auspicabile e necessario legiferare affinché le industrie non impongano alla società il costo dell’inquinamento ambientale.

CR: In gioventù credeva nel socialismo, quando e perché ha cambiato così radicalmente?
FAvH: L’idea che se usiamo la nostra intelligenza possiamo organizzare la società molto meglio, e persino perfettamente, risulta molto affascinante per i giovani. Ma non appena ho iniziato a studiare economia, ho cominciato a dubitare di questa utopia. Proprio allora, esattamente quasi sessant’anni fa, Ludwig von Mises pubblicò a Vienna l’articolo in cui dimostrò che il calcolo economico è impossibile in assenza del sistema altamente complesso di indicazioni e segnali che può funzionare solo in un’economia di mercato. Quell’articolo mi convinse completamente della follia implicita nell’illusione che la pianificazione centrale possa migliorare minimamente la società umana. Devo dire che, nonostante la forza convincente dell’articolo di Mises, in seguito mi resi conto che le sue argomentazioni erano di per sé troppo razionalistiche.
Da allora ho dedicato molti sforzi per presentare la stessa tesi in una forma un po’ diversa. Mises ci dice: gli uomini devono avere l’intelligenza per scegliere razionalmente l’economia di mercato e rifiutare il socialismo. Ma naturalmente non è stato il ragionamento umano a creare l’economia di mercato, bensì un processo evolutivo. E poiché l’uomo non ha creato il mercato, non potrà mai svelarlo completamente o anche solo approssimativamente. Ribadisco che si tratta di un meccanismo a cui tutti contribuiamo, ma di cui nessuno è padrone. Mises combinava la sua fede nella libertà con l’utilitarismo e sosteneva che il sistema di mercato può e deve, attraverso la ragione, essere dimostrato come preferibile al socialismo, sia politicamente che economicamente. Da parte mia, credo che ciò che è alla nostra portata sia riconoscere empiricamente quale sistema sia stato in pratica benefico per la società umana e quale sia stato in pratica perverso e distruttivo.

CR: Perché lei, economista, ha scritto un libro “politico” come La via della schiavitù (1944), una delle cui conseguenze non poteva che essere una polemica dannosa per il suo lavoro sull’economia?
FAvH: Ero emigrato in Inghilterra diversi anni prima e, già prima della Seconda guerra mondiale, ero sconcertato dal fatto che i miei amici inglesi “progressisti” fossero tutti convinti che il nazismo fosse una reazione antisocialista. Sapevo, per esperienza diretta dello sviluppo del nazismo, che Hitler era egli stesso un socialista. La questione mi angosciava a tal punto che iniziai a indirizzare memorandum interni ai miei colleghi della London School of Economics per cercare di convincerli del loro errore. Ne nacquero conversazioni e discussioni tra noi da cui alla fine nacque il libro. Era uno sforzo per convincere i miei amici inglesi che stavano interpretando la politica europea in modo tragicamente sbagliato. Il libro ha fatto il suo dovere. Suscitò grandi polemiche e persino i socialisti inglesi arrivarono ad ammettere che in un sistema a pianificazione centralizzata vi erano rischi di autoritarismo e totalitarismo. Paradossalmente, il luogo in cui il libro fu accolto con maggiore ostilità fu il presunto bastione del capitalismo: gli Stati Uniti. All’epoca c’era una sorta di innocenza sulle conseguenze del socialismo e una forte influenza socialista sulle politiche del “New Deal” rooseveltiano. A tutti gli intellettuali americani, quasi senza eccezione, il libro apparve come un attacco ai loro ideali e al loro entusiasmo.

CR: Ne La società libera, del 1960, lei afferma categoricamente: “In Occidente il socialismo è morto”. Non era evidentemente troppo ottimista?
FAvH: Intendevo dire che è morto come potenza intellettuale, cioè il socialismo nella sua formulazione classica: la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, distribuzione e scambio. Lo spirito socialista, molto prima del 1960, aveva già cercato in Occidente altre vie d’azione attraverso il cosiddetto “Welfare State”, la cui essenza consiste nel raggiungere gli obiettivi del socialismo non attraverso la nazionalizzazione, ma attraverso tasse sul reddito e sul capitale che trasferiscono allo Stato una quota sempre maggiore del PIL (Prodotto Interno Lordo), con tutte le conseguenze che ciò comporta.

CR: Tuttavia, François Mitterrand è stato appena eletto presidente della Francia, proponendo un programma socialista piuttosto classico, in quanto basato su ampie nazionalizzazioni…
FAvH: Beh, si caccerà in un guaio terribile.

CR: Ma questo non confuta il fatto che la sua offerta elettorale era socialista, ed è stata accettata da un Paese occidentale come la Francia, ben dopo che lei aveva esteso la “condanna a morte” del socialismo in Occidente.
FAvH: Ha assolutamente ragione. Lei mi mette in un angolo e mi costringe a rispondere che non sono mai riuscito a capire il comportamento politico dei francesi…

CR: Mi permetta di fare l’avvocato del diavolo. Si può sostenere con forza che non solo il socialismo non è morto in Occidente, ma che, come sosteneva Marx, è il capitalismo che sta morendo e sta per morire. È un dato di fatto che pochissime persone, anche nei Paesi con un’economia di mercato ammirevole e fiorente, sembrano rendersi conto che il benessere e la libertà di cui godono hanno a che fare con il sistema capitalistico, e allo stesso tempo tendono ad attribuire tutto ciò che considerano riprovevole nelle loro società proprio al capitalismo.
FAvH: È vero, ed è una situazione pericolosa. Ma oggi non è così vero come lo era ieri. Quarant’anni fa la situazione era infinitamente peggiore. Tutti coloro che ho chiamato “divulgatori di idee di seconda mano”: insegnanti, giornalisti, ecc. erano già stati conquistati dal socialismo da tempo e si dedicavano a inculcare l’ideologia socialista nei giovani e in generale in tutta la società, come un catechismo. Sembrava inevitabile che in altri vent’anni il socialismo avrebbe irrimediabilmente sopraffatto il liberalismo. Ma si vede che questo non è successo. Al contrario, chi di noi è vivo da molto tempo e può fare un confronto, può vedere che mentre i leader politici sono ancora determinati per inerzia a proporre qualche forma di socialismo, a soffocare o abolire l’economia di mercato, gli intellettuali delle nuove generazioni mettono in discussione sempre più vigorosamente il progetto socialista in tutte le sue forme.
Se questa evoluzione persiste, come è prevedibile, arriveremo al punto in cui i divulgatori di idee di seconda mano diventeranno a loro volta veicoli di messa in discussione del socialismo. È un fatto storico ricorrente che vi sia uno scollamento tra la pratica politica e la futura tendenza dell’opinione pubblica, nella misura in cui quest’ultima è destinata a seguire la strada tracciata dagli intellettuali, che sarà poi percorsa dai sub-intellettuali (i divulgatori di idee di seconda mano) e infine dalla maggioranza della società. È così che può accadere quello che abbiamo visto in Francia: che c’è ancora una maggioranza elettorale per un’ideologia – il socialismo – che ha la morte storica scritta in fronte.

CR: Secondo il marxismo, l’autodistruzione della società capitalista avverrà inesorabilmente in uno dei due modi, o per i loro effetti combinati: (1) il soffocamento delle nuove, immense forze produttive suscitate dal capitalismo, per la tendenza alla concentrazione del capitale e alla diminuzione dei profitti; (2) la rivolta dei lavoratori, disperati per la loro inevitabile pauperizzazione al livello minimo di sussistenza. Né l’una né l’altra si sono verificate. D’altra parte, viene spesso trascurata la terza critica di Marx alla società liberale, che è terribilmente in linea con quanto sta accadendo: “La borghesia (si legge nel Manifesto del partito comunista) non può esistere senza rivoluzionare costantemente gli strumenti di produzione e quindi i rapporti sociali. Al contrario, la prima condizione di esistenza delle precedenti classi dominanti era la conservazione dei vecchi modi di produzione. Ciò che distingue l’epoca borghese da tutte le precedenti è questa costante rivoluzione della produzione, questo sconvolgimento di tutte le condizioni sociali, questa eterna insicurezza e instabilità. Tutti i rapporti fissi e rigidi vengono spazzati via insieme al loro seguito di opinioni e pregiudizi vecchi e venerabili. Tutte le opinioni appena formate diventano antiquate prima di potersi consolidare. Tutto ciò che è solido si dissolve nel nulla. Tutto ciò che è sacro viene profanato. E così l’uomo si trova finalmente costretto a confrontarsi, con i suoi sensi non offuscati, con le sue vere condizioni di vita e con le sue vere relazioni con i suoi simili”. Questa descrizione non corrisponde in effetti a ciò che accade nella società capitalista, e non è sufficiente a spiegare il distacco di tante persone dai vantaggi di questa società rispetto alla sua alternativa socialista?
FAvH: In un certo senso, sì. Quelli che lei chiama i vantaggi del sistema capitalista sono stati resi possibili, laddove l’economia di mercato ha dato prova di sé, dall’addomesticamento di certe tendenze o istinti degli esseri umani, acquisiti in milioni di anni di evoluzione biologica e adatti a uno stadio in cui i nostri antenati non avevano una personalità individuale. È stato attraverso l’acquisizione culturale di nuove regole di comportamento che l’uomo è riuscito a passare dalla microsocietà primitiva alla macrosocietà civilizzata. Nella prima, le persone producevano per sé stesse e per l’ambiente circostante. In questa, non si sa per chi, e si scambia il proprio lavoro con beni e servizi prodotti anche da estranei. In questo modo, la produttività di ogni individuo e quindi quella della società nel suo complesso ha potuto raggiungere i livelli sorprendenti che vediamo oggi.
Ora, perché la civiltà funzioni e si evolva fino a un’economia di mercato degna di questo nome, è necessario, come ho detto prima, rimodellare l’uomo primitivo che eravamo, attraverso sistemi giuridici e soprattutto attraverso lo sviluppo di canoni etici culturalmente inculcati, senza i quali le leggi sarebbero altrimenti inoperanti. È importante notare che solo con la rivoluzione industriale si è prodotto l’equivoco, oggi così diffuso, sui vantaggi dell’economia di mercato; un grande paradosso, se si considera che da allora questo sistema ha dato i suoi frutti migliori sotto forma di beni e servizi, ma anche di libertà politica, ovunque abbia prevalso. La spiegazione è che fino al XVIII secolo le unità produttive erano piccole. Fin dall’infanzia tutti conoscevano il funzionamento dell’economia, sentivano quello che noi chiamiamo mercato. Da quel momento in poi si sono sviluppate le grandi unità di produzione, nelle quali (e Marx lo vedeva bene) le persone erano tagliate fuori dalla comprensione diretta dei meccanismi dell’economia di mercato. Questo forse non sarebbe stato decisivo se non avesse coinciso con alcuni sviluppi di idee che non sono stati certo causati dalla rivoluzione industriale, ma che nella loro origine l’hanno preceduta.
Mi riferisco al razionalismo di Cartesio: il postulato secondo cui non si deve credere a nulla che non possa essere dimostrato con un ragionamento logico. Questo principio, che inizialmente riguardava la conoscenza scientifica, fu presto trasferito ai campi dell’etica e della politica. I filosofi cominciarono a predicare che l’umanità non doveva più essere vincolata da regole etiche il cui fondamento razionale non poteva essere dimostrato. Oggi, dopo due secoli, stiamo lottando – io l’ho fatto per tutta la vita – per dimostrare che ci sono ottime ragioni per credere che la proprietà privata, la concorrenza, il commercio (in una parola, l’economia di mercato) siano i fondamenti della civiltà e dell’evoluzione della società umana verso la tolleranza, la libertà e la fine della povertà. Ma quando l’etica dell’economia di mercato è stata improvvisamente messa in discussione nel XVIII secolo da Rousseau e poi, con la forza che conosciamo, da Marx, è sembrato che non ci fosse nessuna difesa possibile e nessun modo di opporsi alla proposta che fosse possibile creare una “nuova morale” e un “uomo nuovo”, entrambi conformi, inoltre, alla “vera” natura umana, che si supponeva corrotta dalla civiltà e più che mai contraddetta dal capitalismo industriale e finanziario.
Devo dire che per coloro che si ostinano a lasciarsi convincere dall’illusione rousseauiana-marxista che sia in nostro potere tornare alla nostra “vera” natura abolendo l’economia di mercato, l’argomento socialista si rivelerà irresistibile. Fortunatamente si sta facendo strada la convinzione opposta, perché ci si rende conto che praticamente tutto ciò che ci sta a cuore in politica e in economia deriva direttamente dall’economia di mercato, con la sua capacità di aggirare i problemi e di trovare soluzioni (in una forma che non può essere sostituita da nessun altro sistema) adattando un numero immenso di decisioni individuali a stimoli che non sono e non possono essere oggetto di conoscenza, né tantomeno di catalogazione e coordinamento da parte dei pianificatori.
Ci troviamo quindi nella seguente situazione (e spero che questo risponda alla sua domanda): (1) La civiltà capitalista, con tutti i suoi vantaggi, ha potuto svilupparsi perché esisteva per essa la base di un sistema etico e di un insieme organico di credenze che nessuno ha costruito razionalmente e che nessuno ha messo in discussione. (2) L’assalto razionalista a questo fondamento di costumi, credenze e comportamenti, in concomitanza con il disimpegno della maggioranza degli esseri umani da quell’esperienza dell’economia di mercato che era comune nella società preindustriale, ha indebolito quasi fatalmente la civiltà capitalista, creando una situazione in cui si percepivano solo i suoi difetti e non i suoi vantaggi. (3) Poiché il socialismo non è più un’utopia, ma è stato sperimentato e i suoi risultati sono sotto gli occhi di tutti, è ora possibile e necessario tentare di riabilitare la civiltà capitalista. Non è detto che questo tentativo avrà successo. Forse non lo avrà.
Quello di cui sono sicuro è che altrimenti (cioè se il socialismo continuerà a diffondersi) l’attuale immensa e crescente popolazione mondiale non potrà essere sostenuta, poiché solo la produttività e la creatività dell’economia di mercato hanno reso possibile la cosiddetta “esplosione demografica”. Se alla fine prevarrà il socialismo, nove decimi della popolazione mondiale morirà letteralmente di fame.

CR: Alcuni dei più eminenti e profondi pensatori liberali, come Popper e Schumpeter, hanno espresso il timore che la società liberale, pur essendo incomparabilmente superiore al socialismo, sia precaria e che non solo non sia destinata a diffondersi in tutto il mondo – come si pensava un secolo fa – ma che finisca per autodistruggersi, anche dove è fiorita. Karl Popper sottolinea che il progetto socialista risponde alla nostalgia che tutti portiamo dentro di noi per la società tribale, dove l’individuo non esisteva. Schumpeter sosteneva che la civiltà capitalista, per il fatto stesso di essere consustanziale al razionalismo, al libero esame, alla critica costante di tutte le cose, permette, ma anche incoraggia, stimola e persino premia l’assalto ideologico alle sue fondamenta, con il risultato che alla fine persino gli imprenditori smettono di credere nell’economia di mercato.
FAvH: In effetti, Joseph Schumpeter è stato il primo grande pensatore liberale a giungere alla desolante conclusione che la disaffezione per la civiltà capitalista, che essa stessa crea, finirà per portarla all’estinzione e che, nella migliore delle ipotesi, un socialismo di amministratori burocrati è iscritto nell’evoluzione delle idee. Ma non dimentichiamo che Schumpeter ha detto queste cose (in Capitalismo, socialismo e democrazia) più di quarant’anni fa. Ho già detto che nel clima intellettuale di allora il socialismo sembrava irresistibile e con esso la distruzione certa della base minima di esistenza per la maggioranza della popolazione mondiale. Quest’ultimo aspetto non era percepito da Schumpeter. Era un liberale, come lei ha detto, e un grande economista, ma condivideva l’illusione di molti nella nostra professione che la scienza economica matematica renda possibile una pianificazione tollerabilmente efficiente. Quindi, sebbene egli stesso fosse convinto che l’economia di mercato fosse preferibile, presumeva che la perdita di efficienza e produttività, inevitabile quando l’economia di mercato veniva sostituita dalla pianificazione, fosse tollerabile. In altre parole, Schumpeter non si rendeva conto di quanto la sopravvivenza dell’economia di mercato, almeno dove esiste, sia una questione di vita o di morte per il mondo intero.

CR: Questo può essere vero, e se così fosse dovrebbe indurre ogni uomo pensante a resistere all’avanzata del socialismo. Ma quello che vediamo (e ancora una volta mi riferisco a Schumpeter) è che gli intellettuali in Occidente, salvo eccezioni, hanno smesso di credere che la libertà sia il valore supremo e anche la condizione ottimale della società. Nemmeno l’esempio di ciò che accade immancabilmente agli intellettuali dei Paesi socialisti li dissuade dal continuare a sostenere il socialismo per i loro Paesi e per il mondo.
FAvH: Quando Schumpeter sviluppò la sua analisi e la sua descrizione del comportamento degli intellettuali nella civiltà capitalista, ero disperato e pessimista come lui. Ma non è più vero che ci sono poche eccezioni. Quando ero molto giovane, solo pochi anziani (tra gli intellettuali) credevano nelle virtù e nei vantaggi della libera economia. Nella mia maturità, eravamo un piccolo gruppo, considerato eccentrico, quasi pazzo e messo a tacere. Ma oggi, quarant’anni dopo, le nostre idee sono conosciute, ascoltate, discusse e vengono considerate sempre più convincenti. Nei Paesi periferici, gli intellettuali che hanno compreso l’infinita capacità distruttiva del socialismo sono ancora pochi e isolati. Ma nei Paesi in cui l’ideologia socialista ha avuto origine – Gran Bretagna, Francia, Germania – c’è un vigoroso movimento intellettuale a favore dell’economia di mercato come fondamento indispensabile dei valori supremi dell’essere umano. I protagonisti di questa rinascita del pensiero liberale sono giovani uomini, che a loro volta hanno discepoli ricettivi e attenti nelle loro cattedre universitarie.
Devo ammettere, tuttavia, che ciò è avvenuto quando si è perso così tanto terreno che il risultato finale rimane in dubbio. Per inerzia, nella quasi totalità dei casi i leader politici continuano a pensare in termini di desiderabilità, o comunque di inevitabilità, di una qualche forma di socialismo e, persino i liberali, ritengono politicamente impraticabile liberare le loro società da tutti i pesi, gli impedimenti, le distorsioni e le aberrazioni che sono stati accumulati, incorporati nella legislazione, ma anche nei costumi dell’amministrazione pubblica, dall’influenza dell’ideologia socialista. In altre parole, il movimento politico continua ad andare nella direzione sbagliata, ma non il movimento intellettuale. Lo dico con cognizione di causa.
Per anni, dopo la pubblicazione de La via della schiavitù, mi è capitato che quando tenevo una conferenza da qualche parte, di fronte a un pubblico accademico ostile, con una forte componente di economisti convinti dell’onnipotenza della nostra professione e della conseguente superiorità della pianificazione sull’economia di mercato, qualcuno si avvicinasse e mi dicesse: voglio che tu sappia che sono d’accordo con te. Da qui l’idea di fondare la Mont Pelerin Society, affinché questi uomini isolati e sulla difensiva avessero un legame, sapessero di non essere soli e potessero periodicamente incontrarsi, discutere, scambiarsi idee, elaborare piani d’azione.
Ebbene, trent’anni dopo sembrava che la Mont Pelerin Society non fosse più necessaria, tanta era la forza, il numero, l’influenza intellettuale nelle università e nei media dei cosiddetti neoliberisti. Ma abbiamo deciso di mantenerla attiva perché ci siamo resi conto che la situazione in cui ci siamo trovati anni prima in Europa, negli Stati Uniti e in Giappone è quella in cui si trovano oggi coloro che difendono l’economia di mercato nei Paesi in via di sviluppo, e piuttosto a loro grande svantaggio, poiché si trovano di fronte all’argomentazione che il capitalismo ha impedito o rallentato lo sviluppo economico, politico e sociale dei loro Paesi, quando la verità è che non è mai stato veramente provato.

CR: Uno dei modi più efficaci che gli ideologi socialisti hanno usato per screditare il pensiero liberale è quello di etichettarlo come “conservatore”. Così quasi tutti sono convinti, in buona fede, che lei sia un conservatore, un convinto difensore dell’ordine esistente, un nemico di ogni innovazione e di ogni progresso.
FAvH: Ne sono talmente consapevole che ho dedicato l’intero ultimo capitolo del mio libro La società libera proprio a confutare questa falsità. In quel capitolo cito uno dei più grandi pensatori liberali, Lord Acton, che scrisse: “Il numero dei veri amanti della libertà è sempre stato esiguo. Perciò, per avere successo, spesso dovevano allearsi con persone che perseguivano obiettivi del tutto diversi da quelli che loro sostenevano. Tali associazioni, sempre pericolose, si sono talvolta rivelate fatali per la causa della libertà, poiché hanno fornito ai loro nemici argomenti schiaccianti”. È così: i veri conservatori meritano il discredito in cui si trovano, perché la loro caratteristica essenziale è che amano l’autorità e la paura e resistono al cambiamento. I liberali amano la libertà e sanno che essa implica un cambiamento costante, confidando che i cambiamenti che si verificano attraverso l’esercizio della libertà siano quelli più desiderabili o che arrechino il minor danno alla società.

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