Attrazione fatale quella degli anniversari. Se poi si parla di referendum mentre si vota «per rivedere di fatto le leggi sul lavoro e sui licenziamenti, oltre che sulla concessione della cittadinanza italiana a immigrati, ebbene la coincidenza sembra quasi voluta. Ma il lavoro condotto da Alberto Mingardi sul voto che secondo i proponenti avrebbe dovuto abrogare nel 1995, trent’anni fa, alcune misure della legge Mammì (tre) sulla televisione, mostra quanto si tratti solo di una coincidenza. Quasi 500 pagine di un libro che ha perlomeno un doppio volto. Il titolo indica già che è tutto fuorché un semplice ritornare ai tempi della discesa in campo di Silvio Berlusconi, al quale, si scopre, fu vivamente sconsigliato di partecipare alla campagna referendaria da due coraggiosi dirigenti delle sue tv, Federico Di Chio e Carlo Momigliano. Consiglio accettato, sebbene con qualche perplessità, «non si tiene fuori Maradona nelle partite decisive». Ma che, depoliticizzando la vicenda e non avendo prova contraria, fu vincente.
Meglio poter scegliere (in uscita per Mondadori martedì 10 giugno) ci guida in quel labirinto che sono i flussi profondi dei movimenti ideali nelle popolazioni e che spingono le persone a recarsi alle urne. Labirinto che l’autore sembra ben intenzionato a voler svelare. Eh sì, perché quei referendum del 1995 sembravano in fondo così facili. O perlomeno sembrava semplice convincere gli italiani che «massacrare» film con interruzioni pubblicitarie fosse una fesseria. Ma non andò così. Il voto rivelò come, forse come mai in precedenza, «quella volta fecero tutto gli elettori». Probabilmente volevano solo banalmente tornare a casa e scegliere cosa vedere in tv. E magari non si trattava di decidere solo se erano meglio gli spot nei film o no.
Ed è forse per questo che il ricordo è più che sbiadito, sia per i vincitori, sia per i perdenti, nella battaglia per quei dodici quesiti. Si presentano ai seggi 28 milioni di elettori sui 48 milioni potenziali, il 58% degli aventi diritto al voto. Si era ben lontani da quel 73% di partecipazione per i referendum del 1993 voluti da Marco Pannella e Mario Segni contro il finanziamento pubblico dei partiti e il sistema di voto al Senato per avvicinarsi al sistema maggioritario e via dicendo. Ma quell’alta partecipazione fu una sorpresa per le due parti avverse.
«Persino coloro che di quegli anni sono stati protagonisti ne serbano un ricordo vago — nota l’autore, docente di Storia delle dottrine politiche alla Iulm di Milano —. I filoberlusconiani li hanno rimossi, perché preferiscono raccontarsi la leggenda del 27 marzo 1994, Berlusconi contro Occhetto, un modo nuovo di far politica contro il vecchio dei partiti, le trame di Scalfaro contro il Cavaliere, eccetera. Gli antiberlusconiani non hanno solo l’accortezza di dimenticarsi una sconfitta, ma sono persuasi in buona fede che non sia successo nulla di rilevante: in un mondo dominato dalla televisione e in cui Sua Emittenza muoveva i suoi accoliti come fossero soldatini, col senno di poi quei referendum si potevano solo perdere».
Ma in quell’11 giugno del 1995 Mingardi vede qualcosa di più che una semplice contrapposizione. Lo porta da studioso del «pensiero più che degli eventi» a individuare la possibilità di arrivare a chiarire meglio «che cosa sia la libertà». Richiamandosi a Luigi Einaudi. «La libertà di cui parlo non è quella della coscienza individuale, la quale vive anche nelle galere e nei campi di concentramento fra gli eroi e i martiri; ma è la libertà pratica dell’uomo comune», scrive Einaudi sul «Corriere della Sera» del 13 aprile 1948. Siamo talmente abituati ad andare a fare la spesa, e ci siamo adattati con tanta rapidità a farlo di domenica o la sera al ritorno dal lavoro che non ci rendiamo più conto che si tratta di «una libertà». A meno che non si rischi di perderla.
Libertà e storia della televisione. Che comincia negli Stati Uniti. Quando si delinea la necessità di dover stabilire uno standard per la tv a colori. Ma come emergono questi standard? Lasciarne alcuni in concorrenza tra loro e alla fine «il mercato», i telespettatori, sceglie, o sostituire al giudizio dei consumatori quello di alcuni esperti? Il viaggio continua con l’avvento della società di massa. E dire massa è diverso che dire popolo. Si costruisce un recinto che è quello del servizio pubblico. E all’interno di quel servizio pubblico tutti devono e possono esprimersi. Concetto che in Italia porta alle Tribune politiche, novità per l’intera Europa. «A Studio Uno il Quartetto Cetra e una giovanissima Mina nelle vesti di candidata del Pum (Partito urlatori moderati) per la salvezza dell’italica canzone ne fanno una parodia in musica che si conclude sulle note della Vecchia fattoria (“ia ia oh”)». Il problema è l’accesso al mezzo televisivo. Che ne potessero nascere altre di tv di orientamento diverso da quelle governative non era contemplato.
Le élite, le classi dirigenti in fondo pensano che «le masse sono greggi da portare al pascolo, l’unica vera rivoluzione è cambiare il pastore». E così la storia della televisione italiana raccontata attraverso i suoi protagonisti, da Malagodi, al mitico Bernabei, a Fanfani a quelli del piccolo schermo come Nunzio Filogamo, al festival di Sanremo, è una storia di diffidenze delle classi dirigenti nei confronti delle persone. Del loro intraprendere. E quando un certo Silvio Berlusconi creando una cittadina utopica, Milano 2, e comprando Telemilano, invece di tenersela così com’è — un servizio in più ai residenti della sua città satellite — decide di trasmettere, ecco emergere le diffidenze. Che ignorano quanto dietro quelle tv ci sia un’intuizione che ricorda quella di Google trent’anni dopo: offrire alle aziende una piattaforma di distribuzione della pubblicità in grado di misurare l’efficacia della comunicazione commerciale in termini di aumentati o meno ricavi per le imprese che la usano. E che spinge Mingardi a definire quell’avventura la Silicon Valley italiana.
Non c’è solo business. Ma anche quello che Antonio Pilati, lo scomparso studioso della tv, ricorda Mingardi, chiama «lo stile di Canale 5». Dallas, Visitors, il Mundialito. La pubblicità diventa «notizia»: informare che esiste un prodotto. Abbattendo uno storico steccato che divideva le imprese dalla pubblicità tv, come ricorderà Berlusconi.
Certo c’è la politica. C’è Craxi. C’è la scelta di Berlusconi per Fini sindaco a Roma. E c’è giornalismo. Da tre si passò a sei tg. Il divorzio da Indro Montanelli. La nascita della «Voce».
Fino a quei giorni dei referendum che non si capiva nemmeno se si sarebbero fatti o meno. Quando si chiede agli italiani di decidere se un’impresa pubblicitaria può raccogliere annunci per tre reti, se debba essere abolita la possibilità di inserire messaggi commerciali durante film, opere teatrali, liriche o musicali. Il racconto della storia della tv dalla nascita negli Usa si snoda fino al referendum del 1995. Gli italiani decidono. I Raimondo Vianello e Sandra Mondaini, Iva Zanicchi, Enrico Vanzina e colleghi più forti della politica? E dei registi che producono spot per interrompere programmi altrui ma non i propri film? Sembra di intuire invece che il no sia al paternalismo di chi pretende di sapere sempre cosa sia meglio per gli altri.