Quale energia? Un test per i partiti

Impiego o meno delle risorse nazionali di oil & gas, sussidi o mercato per le fonti rinnovabili, semplificazioni, politica dei prezzi

22 Agosto 2022

Il Foglio

Carlo Stagnaro

Direttore Ricerche e Studi

Argomenti / Ambiente e Energia

Per la prima volta, la politica energetica è – in molti modi – al centro della campagna elettorale. Lo è per gli obiettivi di breve termine che tutte le forze politiche, in vario modo, perseguono: il contenimento dei prezzi, gli effetti diretti e indiretti della siccità, le difficoltà di interi settori industriali. Ma lo è anche per i problemi di lungo termine: l’emergenza climatica, la transizione ecologica, la trasformazione dei nostri sistemi energetici. L’energia è così diventata terreno di battaglia, cosa che non dovrebbe essere: si tratta di un settore ad alta intensità di capitale, dove gli investimenti – una volta realizzati – hanno una vita tecnica che si misura nell’ordine dei decenni. Nessuno è disposto ad accollarsi il rischio di un investimento, se teme che tutto cambierà al primo giro di governo. Eppure, la crisi in corso ci ricorda che non è negando i problemi che si raggiungono le soluzioni, né vagheggiando un mondo distante e pulito che si garantisce l’approvvigionamento energetico qui-e-ora.

E’ importante, allora, che il dibattito, se c’è, sia esplicito; e che, contemporaneamente, esca dal clima di “guerra tra i mondi” che spesso sembra assumere, per acquisire una forma più concreta. Sul Corriere della Sera di martedì, Federico Fubini ha chiesto ai partiti di pronunciarsi su una serie di questioni di vasto respiro: intendono proseguire la battaglia di Draghi per imporre un tetto europeo al prezzo del gas, e come? Vogliono valutare riforme del funzionamento della borsa elettrica, sulla scorta del modello spagnolo di un tetto nazionale o della proposta greca di separazione delle rinnovabili dal gas? Accanto a questi temi alti, ve ne sono altri più terra-terra da cui, però, dipende il futuro energetico del nostro paese. Proviamo, allora, a mettere in fila cinque domande – più un quesito bonus – a cui i responsabili energia dei vari partiti (se ci sono) dovrebbero sforzarsi di rispondere.

Prima domanda: tutti sono favorevoli alle semplificazioni. Ma cosa significa in pratica?

Tutti i partiti dicono di volere le semplificazioni – sia in generale, sia in relazione specificamente all’energia. Non è, però, chiaro cosa questo voglia dire. Nella discussione sulle semplificazioni si incrociano due aspetti, che andrebbero esplicitati e invece quasi mai lo sono. Il primo riguarda il rapporto tra le infrastrutture energetiche e il territorio. Gran parte delle proteste contro l’installazione di questa o quell’opera sono pretestuose e strumentalizzano il tema del paesaggio per altre ragioni. Ma non si può negare che la questione esista: fino a che punto, dunque, devono spingersi le semplificazioni, e in cosa consistono? Come si può trovare un punto di equilibrio tra la tutela del paesaggio e la difesa del clima? L’altra questione è maggiormente legata al derby politico. Chi discute di semplificazioni lo fa, spesso, a compartimenti stagni: vorrebbe una fast-track autorizzativa per l’eolico ma è pronto a scendere in piazza contro i termovalorizzatori. Bisogna invece capire che chi evoca il mostro del Nimby contro i rigassificatori finisce per alimentarlo anche quando si scaglia contro i campi fotovoltaici e viceversa. Quindi: i responsabili energia dei partiti sono disposti a impegnarsi in una moratoria a 360 gradi sulla burocrazia autorizzativa? Oppure ritengono che si debbano fare distinzioni tra le varie tipologie di opere?

Seconda domanda: le risorse nazionali di oil & gas fanno parte della nostra strategia per la sicurezza energetica oppure vanno lasciate nel sottosuolo?

L’Italia non è, in assoluto, un paese ricco di risorse, ma è comunque tra quelli maggiormente dotati in Unione europea. In particolare, abbiamo riserve provate pari a circa 600 milioni di barili di petrolio (con una produzione di circa 100 mila barili al giorno) e riserve certe di gas attorno ai 70 miliardi di metri cubi (con una produzione di tre all’anno). Si tratta, probabilmente, di stime al ribasso, in quanto da anni non vengono rilasciate concessioni esplorative. Solo negli ultimi mesi, con l’esplosione dei prezzi dell’energia e l’incertezza riguardo ai futuri approvvigionamenti, ci siamo resi conto di quale contributo le risorse potrebbero dare alla sicurezza energetica. Così, il governo Draghi ha per la prima volta messo mano alla normativa, prevedendo – entro certi limiti – la possibilità di aumentare i livelli produttivi, purché la produzione addizionale sia rivenduta a prezzi calmierati ai consumatori industriali. In tal modo sarà possibile aggiungere almeno due o tre miliardi di metri cubi annui, sebbene sia praticamente impossibile tornare ai venti miliardi di metri cubi degli anni Novanta. Cosa ne pensano i partiti? Ritengono che queste risorse vadano sfruttate per soddisfare una parte della domanda nazionale, finché ce ne sarà, oppure pensano che dobbiamo continuare a delegare le attività estrattive a paesi terzi lasciando intangibili i giacimenti nazionali?

Terza domanda: che tipo di futuro abbiamo in mente per le energie rinnovabili?

Tutti concordano che le fonti rinnovabili saranno il pilastro del nostro approvvigionamento energetico, coerentemente con gli obiettivi europei. Questo vale soprattutto per le rinnovabili elettriche, la cui rapida diffusione spiega anche l’enfasi sull’elettrificazione dei consumi finali (dalla climatizzazione degli ambienti alla mobilità). Finora le rinnovabili si sono sviluppate secondo due sentieri: gli impianti incentivati e quelli no. Negli anni più recenti, su spinta europea gli incentivi sono stati ripensati: da un lato sono stati disegnati come aste, tentando di mettere in competizione tra loro diverse fonti; dall’altro hanno preso la forma di meccanismi a due vie, in forza dei quali viene garantito un certo livello di prezzo. Se i prezzi di mercato sono inferiori, il sistema integra i ricavi dei produttori; in caso contrario, questi restituiscono al sistema i ricavi in eccesso. Tuttavia, le aste italiane si sono chiuse a livelli molto alti, attorno ai 70 euro / MWH, diversamente da altri paesi come la Spagna dove i produttori verdi hanno chiesto circa la metà. Inoltre, alcuni interventi più recenti – come il tetto ai ricavi delle rinnovabili disposto dal decreto Sostegni ter e la tassa sui cosiddetti extraprofitti – hanno penalizzato proprio le rinnovabili a mercato, che hanno dovuto sostenere negli scorsi anni prezzi bassissimi dell’energia elettrica, e oggi non possono godere dei prezzi elevati. Questo spinge le rinnovabili a cercare la sicurezza del sussidio anziché la sfida del mercato; e implica una socializzazione implicita del rischio prezzo, oltre a un allungamento fisiologico dei tempi per l’entrata in esercizio degli impianti. Infine, gli incentivi premiano la produzione di energia verde, senza alcun riguardo a dove essa viene e se le reti sono in grado di assorbirla. L’idea dei candidati è quella di trasformare sempre più il mercato elettrico in un gigantesco monopsonio – in cui lo stato attraverso il Gse acquista l’energia a prezzo predeterminato, per poi rivenderla – oppure intendono mantenere l’attuale disegno di mercato e, conseguentemente, spingere i gestori degli impianti a cercare la remunerazione dalla vendita dell’energia anziché dalle garanzie pubbliche?

Quarta domanda: come garantire la sostenibilità sociale della transizione ecologica?

La transizione ecologica implica una trasformazione rapida e profonda dei nostri sistemi energetici. Questa trasmissione non può essere senza costi: se lo fosse – se cioè le fonti pulite fossero anche le più convenienti – non ci sarebbe bisogno di un intervento politico, in forma di tasse, incentivi, obblighi e divieti. Inoltre, i costi rischiano di ricadere in misura sproporzionata sulle spalle delle famiglie a basso reddito. Alcuni economisti suggeriscono pertanto di utilizzare le carbon tax come strumento principe per la transizione: in tal modo si potrebbe utilizzare il gettito della tassa per ridurre altre imposte, a vantaggio soprattutto dei redditi bassi. Questo meccanismo non è possibile nel caso di politiche di incentivazione, che invece richiedono la disponibilità di risorse da spendere a favore delle tecnologie preferite. Un discorso analogo vale per altri strumenti, come il bonus 110 per cento, che ha avuto effetti fortemente regressivi. In che modo si ritiene di mitigare questo problema?

Quinta domanda: c’è ancora spazio per il mercato nel settore dell’energia?

Negli ultimi mesi tutti i governi europei, incluso quello italiano, hanno adottato o proposto misure fortemente lesive del funzionamento dei mercati: è il caso del tetto al prezzo del gas, del cosiddetto meccanismo spagnolo per limitare i prezzi elettrici e, su un piano diverso, del bando ai motori endotermici a partire dal 2035. Anche nel caso degli incentivi alle fonti rinnovabili si osserva lo stesso fenomeno: l’idea di attribuire incentivi differenziati, anziché metterle in competizione per selezionare quelle più efficienti, riflette l’idea che non ci fidiamo della “mano invisibile” ma pretendiamo che sia il braccio visibile dello stato ad allocare le risorse. C’è ancora spazio per il mercato e la concorrenza nel settore dell’energia? Per quanto riguarda gli incentivi alle fonti rinnovabili, si ritiene che esse debbano competere tra di loro o che si debba procedere attraverso contingenti individuati dall’alto e incentivi differenziati per fonte? Per quanto riguarda la decarbonizzazione, ritiene si debba puntare sulla concorrenza tra le varie tecnologie (incluso il nucleare, la cattura della CO2, ecc.) oppure si debba procedere attraverso scelte di politica industriale, come l’abbandono forzato del diesel nel 2035? Per quanto riguarda la liberalizzazione dei mercati elettrico e gas, si conferma la scelta di garantire la piena libertà di scelta dei consumatori oppure si ritiene necessario tornare a forme di regolamentazione di prezzo più aggressive?

Domanda bonus: in caso di razionamenti come procedere?

L’Italia sta facendo uno sforzo enorme per emanciparsi dal gas russo. Il ministro Roberto Cingolani ha presentato un credibile piano per la piena autonomia nel 2024, grazie alla sostituzione del gas con altre fonti e alla diversificazione dei fornitori. Sono inoltre previste ulteriori misure emergenziali per ridurre la domanda invernale di gas, quali la riduzione delle temperature negli uffici pubblici e l’utilizzo del carbone ed eventualmente del gasolio per generare energia elettrica. Tuttavia, se le cose dovessero precipitare e la Russia chiudesse completamente i flussi verso l’Europa, è possibile che il nostro paese sia costretto a procedere a forme di razionamento, specie se l’inverno si rivelasse particolarmente freddo. In alcuni paesi europei, come la Germania, c’è un intenso dibattito su come ripartire lo sforzo tra famiglie e imprese. In principio, la priorità dovrebbe essere quella di tutelare le famiglie. Ma l’indisponibilità prolungata di gas per le imprese potrebbe avere enormi costi economici, paragonabili a quelli dei lockdown nel 2020. Come si pensa di affrontare questo tema? Si ritiene necessario garantire la priorità alle famiglie per l’approvvigionamento di gas oppure l’onere, nel caso di un blocco prolungato nel tempo, andrebbe ripartito diversamente?

Se almeno alcune di queste domande trovassero una risposta, il confronto sulla politica energetica non avrebbe l’apparenza di uno sventolio di bandiere contrapposte, ma si sposterebbe su un piano più concreto e utile agli elettori, agli operatori del mercato e al paese.

da Il Foglio, 22 agosto 2022

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