Punire i Big Tech serve alla concorrenza?

L'obiettivo della legge USA è impedire di privilegiare, sulle proprie piattaforme, i prodotti della casa

29 Agosto 2022

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

Regolare i giganti del web: sì, ma come? Negli Stati Uniti il Senato si appresta a votare, a settembre, l’American Innovation and Choice Online Act (Aicoa) proposto dalla senatrice democratica Amy Klobuchar, ma che gode di sostegno bipartisan. Dopo l’allontanamento forzato di Donald Trump da Twitter, infatti, i Repubblicani, tradizionalmente scettici rispetto alla possibilità di regolamentare il web, hanno fatto marcia indietro e si sono scoperti favorevoli a qualche forma di irregimentazione «punitiva» delle imprese della Silicon Valley.

Purtroppo si rischia sempre di confondere piani diversi. C’è ampia preoccupazione, soprattutto all’interno delle classi dirigenti, sugli effetti dei social media sul dibattito pubblico, su come solleticano il tribalismo politico e alimentano le fake news. Ci sono discussioni che attengono lo status della proprietà intellettuale dei contenuti messi su piattaforme come YouTube. E poi ci sono questioni antitrust, sulle quali spesso si tende a schiacciare ogni altro problema. È una scorciatoia pensare che i guai della democrazia al tempo del web possano essere risolti rendendo illegali alcune pratiche commerciali ovvero spezzettando per legge imprese che sono diventate «troppo grandi».

L’Aicoa è studiato per colpire i maggiori marchi del digitale: piattaforme online che abbiano più di 50 milioni di utenti attivi al mese ovvero una capitalizzazione superiore ai 550 miliardi. Questo vuol dire Google, Facebook, Amazon e pochi altri. Un emendamento è stato aggiunto alla legge per fare in modo che essa si applichi anche a piattaforme che hanno più di un miliardo di utenti attivi al mese ma nel mondo. L’emendamento Tik Tok.

L’obiettivo della legge, non troppo diverso da quello del Dma europeo, è impedire a tali imprese di privilegiare, sulle proprie piattaforme, taluni servizi che esse stesse offrono. In nome della interoperabilità e della libertà di accesso, diventerebbe impossibile per Google mostrare automaticamente i risultati di Google Maps, in corrispondenza della ricerca di un determinato luogo. Gli iPhone non potrebbero avere software Apple preinstallato. Ma anche Amazon non potrebbe continuare a offrire la spedizione in due giorni con Amazon Prime, perché dovrebbe lasciare spazio anche ad altri operatori di logistica. Trentacinque imprese hi-tech (di dimensione più piccola) hanno sostenuto con una lettera aperta il progetto della senatrice Klobuchar, sostenendo che creerebbe spazio per l’innovazione e renderebbe più facile ai consumatori «ottenere i servizi che effettivamente vogliono».

Si pensa infatti che questi servizi (Google o Apple Maps, un servizio di messaggistica oppure un altro, le spedizioni Prime) abbiano successo perché rappresentano l’esercizio di un «potere di mercato» da parte delle diverse imprese. Siccome già uso Facebook, va a finire che utilizzo anche Messenger. Siccome le mie ricerche le faccio su Google, «inciampo» su Google Maps quando in realtà vorrei utilizzare lo stesso servizio, ma fornito da altri. Poco importa se questi servizi vengono o meno apprezzati dagli utenti.

La presenza di determinati software sulle piattaforme, il fatto che essi siano stati più o meno «integrati» all’interno dell’offerta di Google o di Apple, non rappresenta solo la volontà di potenza dei giganti del web ma risponde anche alle preferenze dei consumatori. La stessa natura dei loro «prodotti» cambia col tempo, in ragione dell’evoluzione tecnologica Noi oggi ci aspettiamo da un motore di ricerca o da un sito di e-commerce una serie di possibilità che solo dieci anni fa non avremmo mai preteso. Il legislatore ritrova in queste dinamiche un conflitto d’interessi. Tuttavia l’essenza dell’attività imprenditoriale è il controllo sul prodotto che si offre, la definizione dello stesso, la scelta su quali funzioni integrare o meno all’interno dell’azienda. Per le grandi imprese, le economie di scala.

Affrancare l’antitrust dall’ossessione di impedire l’integrazione verticale è stato uno dei grandi risultati della battaglia intellettuale condotta in passato da figure come Robert Bork, che dovrebbero essere ben note ai repubblicani statunitensi. Ma, anche da quelle parti, prevale l’idea di colpire la Silicon Valley a dispetto di fastidiosi dettagli. Prevale pure l’idea di proibire o circoscrivere ex ante i comportamenti anziché aspettare l’esito del processo giurisprudenziale. Quando invece giudici che decidono sulla base di precedenti consolidati ed evidenze prodotte dalle parti potrebbero aiutarci a capire quali sono effettivamente i comportamenti anticoncorrenziali e quando invece ciò che danneggia i propri competitor va a vantaggio del cliente.

Forse, negli Stati Uniti come da noi, c’è una certa divaricazione fra le priorità delle persone e quelle del ceto politico. Un sondaggio Axis Research realizzato per la US Chamber of Commerce constata che il 64% degli elettori è preoccupato dall’andamento della situazione economica e che il 54% ritiene sia una priorità avere prezzi più bassi peri consumatori. Solo 115% è favorevole a una maggiore regolamentazione delle big tech e soltanto il 4%a farne lo «spezzatino», perché sono diventate troppo grandi. I consumatori vogliono servizi migliori e prezzi inferiori. Il legislatore dovrebbe tarare i mezzi necessari a raggiungere questo fine. Invece sovrapporre questioni diverse (democrazia, privacy, fake news, eccetera) finisce per mascherare una politica tutto sommato prevedibile: le grandi imprese si meritano una mazzata perché sono grandi. Anche l’antitrust può essere populista.

da L’Economia del Corriere della sera, 29 agosto 2022

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