Privatizzazioni e monopoli

Per ora sulle dismissioni non ci sono programmi definiti

2 Settembre 2023

Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

Da alcuni anni, «privatizzare» è una parola proibita nel vocabolario politico. In Italia la si associa a una breve stagione nella quale si tentò di ridurre l’asfissiante presenza statale nel comparto produttivo. Chi ha nostalgia dell’impresa pubblica ricorda spesso la tessera telefonica e altre innovazioni targate SIP, ma dimentica che lo Stato in Italia faceva i panettoni, la passata di pomodoro e le sigarette.

È una notizia quindi che il ministro Giorgetti abbia accennato a un possibile disinvestimento in alcune partecipate. Annunciando l’operazione sulla rete telefonica, Giorgetti ha voluto chiarire che lo Stato può entrare nel capitale di un’azienda, ma anche uscirne. Lo Stato imprenditore non deve necessariamente crescere. Altrove, che un governo di destra privatizzi non sarebbe una sorpresa. In Italia lo è: le privatizzazioni le fece l’ultimo esecutivo della prima Repubblica, quello guidato da Giuliano Amato, e poi Romano Prodi nel 1996-1998. Di Berlusconi si ricorda l’Alitalia ceduta ai «capitani coraggiosi».

La stagione delle dismissioni si è chiusa in due modi diversi. Da una parte, c’è stata una rinazionalizzazione strisciante. Per limitarsi a un esempio: negli anni Novanta lo Stato era uscito dalle assicurazioni, oggi uno dei principali assicuratori del Paese è di nuovo pubblico. Questo processo è stato guidato solo in parte dai decisori politici. Manager capaci hanno colto opportunità di mercato, pur avendo per azionista di riferimento il governo. Dall’altra, c’è stata invece un’offensiva ideologica contro la concorrenza, che ha unito destra e sinistra nell’ invocare il «ritorno» di uno Stato che pure non se ne era mai davvero andato. Si è diffuso il mito che le privatizzazioni siano state delle «svendite» sia quando i nuovi proprietari ci hanno guadagnato sia quando non sono stati gestori brillanti. Il vero problema è che furono iniziative dettate dalla necessità, messe in cantiere per le pressioni sulle finanze pubbliche.

Chiunque venda vuole qualcosa in cambio. Un governo che ha a cuore l’interesse nazionale dovrebbe cercare di valorizzare al massimo quanto mette sul mercato. Ma non solo. È necessario anche coltivare un’idea del rapporto fra pubblico e privato. Le forze politiche, in un Paese normale, si dividono su questo. Sarebbe auspicabile che invece comune fosse una certa cultura delle regole.

Vendere quote e spezzoni di aziende serve a far cassa, mantenendo inalterato il rapporto incestuoso con l’azionista pubblico che è anche regolatore e controllore. Privatizzare dovrebbe invece significare restituire un’impresa al mercato. Cioè non occuparsene più, imparare a rispettarne l’autonomia. Questo crea opportunità per la concorrenza: come è stato con l’esecrata privatizzazione della telefonia, che ha aperto spazi per altri operatori e consentito prezzi fra i più bassi in Europa.

Se la sfida dei prossimi anni è, per il nostro Paese, avere tassi di crescita più alti che in passato, l’obiettivo dovrebbe essere riaccendere il dinamismo economico, rafforzare la capacità di attrarre risorse e la voglia di fare impresa. Un’economia sana ha bisogno di buoni incentivi, di regole che siano uguali per tutti, senza operatori che possano attingere alla borsa pubblica o che abbiano un filo diretto con i ministeri. Privatizzare, dunque, per togliere spazio al monopolio e al privilegio, scommettendo sull’impresa.

C’è questo, nei piani del governo? Per ora sulle dismissioni non ci sono programmi ben definiti. Invece il Tesoro ha acquistato, a caro prezzo, una partecipazione nella rete telefonica Tim. Era l’uso migliore dei quattrini del contribuente? I molteplici interventi con lo strumento del golden power danno l’idea che l’aggettivo «strategico» sia il più elastico della lingua italiana. I più non riflettono sul fatto che, ponendo un vincolo «nazionalista» alla contendibilità delle imprese, l’esecutivo danneggia gli imprenditori stessi, oltre a ridurre gli spazi del mercato.

Già a parlare di privatizzazioni si rompe un tabù. Se anche dovesse mettervi mano per questioni meramente finanziarie, il centrodestra però farebbe bene a riprendere il filo di una coerenza su una questione di questo peso. Qualche idea, in politica, aiuta.

dal Corriere della Sera, 2 settembre 2023

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