Il premierato possibile e il coraggio di cambiare

Aprire un confronto vero, franco e aperto tra le forze politiche è un atto dovuto ai cittadini


11 Febbraio 2024

La Stampa

Serena Sileoni

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

Le proposte di modifica al premierato che il governo ha presentato in Senato, dopo due mesi di confronti e decantazione del disegno originario, tentano di ridurre le distanze necessarie a un allargamento della maggioranza di voto in Parlamento. Al Presidente del Consiglio viene ora riconosciuto il potere di proporre la revoca dei ministri; la formula elettorale è più generica dell’originaria; è data possibilità al Presidente dimissionario non sfiduciato con mozione di sfiducia di scegliere tra chiedere al Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere o consentire la nascita di un diverso governo. Quest’ultimo punto è ancora, nonostante le limature, foriero di problemi. Soprattutto, non risolve, anzi complica, la scelta tra una piena adesione a un modello neoparlamentare, per cui le dimissioni del Presidente comportano in ogni caso lo scioglimento delle Camere, e il mantenimento di forme di razionalizzazione che consentono la continuità della legislatura e la formazione di esecutivi diversi, nonostante le dimissioni del premier eletto. 

Il fatto è che la riforma, al di là di come è presentata, mantiene le ambiguità di una forma parlamentare classica e di una immediata. Dal punto di vista teorico, la fiducia espressa iniziale dovrebbe essere superata dall’investitura popolare, dal momento che la prima è una rappresentazione della seconda. Dal punto di vista pratico, il mantenimento di entrambe le forme di legittimazione potrebbe per ipotesi portare a vere e proprie contraddizioni tra la volontà parlamentare e quella popolare, se non si accetta come non si vuole accettare la regola generale per cui la fine del mandato del Presidente del Consiglio comporta la fine della legislatura. 

La stessa ambiguità domina la gestione delle crisi di governo. La possibilità di “staffetta” tra il Presidente eletto dimissionario per motivi diversi da un voto di sfiducia e il suo possibile successore, da una parte consente di conservare una certa flessibilità nella formazione dell’esecutivo non incoerente con un modello parlamentare, ma dall’altra introduce un paradossale effetto di indebolimento proprio del Presidente eletto e, di converso, di rafforzamento della posizione del secondo incaricato, il quale non potrà essere mandato a casa senza che le Camere non siano sciolte. 

La riforma, in sostanza, cerca di tenere il piede in due staffe: garantire una maggiore stabilità dei governi, anche in termini di durata, ma mantenere centrale il confronto per così dire tra e dentro i partiti, anche consentendo ipotesi di vituperati ribaltoni (ad esempio, nel caso di secondo premier nominato in seguito al voto negativo su una questione di fiducia, che possa formare un governo politicamente diverso dal precedente. Una ipotesi che potrebbe riguardare lo stesso premier eletto, rinominato per un secondo mandato). 

Rispetto a queste ambiguità, e aldilà della necessità di limare ancora la gestione delle crisi, una via d’uscita sarebbe quella di rivedere la regola dell’investitura popolare diretta del Primo ministro. Si comprende bene che, per fare un passo simile, il governo deve uscire coraggiosamente da una pregiudiziale politica. Ma bisognerebbe ricordarsi che già ha avuto modo di manifestare un simile coraggio. Nel programma di coalizione, l’attuale maggioranza esprimeva una preferenza per il modello presidenziale. Nelle dichiarazioni programmatiche, Giorgia Meloni parlava indifferentemente di presidenzialismo e semipresidenzialismo. La proposta poi approvata dal governo riguarda invece una forma di premierato. 

Il disegno di legge costituzionale presentato dalla stessa Meloni e dal ministro Alberti Casellati rappresenta quindi un primo, significativo ripensamento del governo, dal momento che la legittimazione popolare, e il conseguente rafforzamento, si spostano dal Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio dei ministri. Nondimeno, il progetto resta coerente con l’idea di individuare per via elettorale il vertice del potere esecutivo: non più, appunto, il Presidente della Repubblica, ma il Presidente del Consiglio. 

Si comprende quindi la difficoltà di mettere in discussione l’investitura popolare diretta. Eppure, se si uscisse per una seconda volta dalla pregiudiziale politica, la riforma potrebbe indirizzarsi verso una formula di premierato che le forze di opposizione avrebbero difficoltà a rigettare. L’esigenza, cara alla maggioranza, di distinguere il ruolo del Presidente rispetto a quello degli altri ministri, superando la formula del primus inter pares e in tal modo consentendo ai cittadini di individuare chiaramente in esso il responsabile della funzione di governo, può ben essere raggiunta anche con la designazione in scheda elettorale. Con due vantaggi. 

A livello costituzionale, consentirebbe di mantenere il rapporto di fiducia più coerente di quanto non sia nell’attuale proposta e di evitare esiti contraddittori delle crisi di governo rispetto alla volontà direttamente espressa dal voto popolare. A livello politico, contribuirebbe a rendere infondati i timori di una deriva plebiscitaria e/o autoritaria della forma di governo, spingendo le forze politiche in Parlamento a una riflessione più ponderata e condivisa circa la necessità di avere un Primo ministro chiaramente responsabile dell’operato di governo di fronte agli elettori. 

Tale convergenza potrebbe peraltro essere propiziata dal fatto che la designazione è stata già negli anni ipotizzata: dal programma elettorale dell’Ulivo del 1996 all’ordine del giorno Elia del 16 gennaio 2001, dalla Bicamerale d’Alema alla riforma del governo Berlusconi del 2005. Parlare di riforma del sistema di governo è opportuno non tanto e non solo per adeguarlo alle necessità delle democrazie di oggi, in cui è richiesta una solida e chiara responsabilità di indirizzo politico verso i cittadini e verso gli Stati terzi. È opportuno soprattutto per non mortificare il valore delle norme costituzionali, con prassi che rendono la Costituzione impropriamente (e pericolosamente) subordinata alle necessità politiche del momento. 

È giusta opinione comune che uno dei punti di forza della nostra Costituzione sia il fatto di essere espressione di un compromesso importante, come si conviene per le regole fondamentali. Aprire un confronto vero, franco e aperto tra le forze politiche per scrivere modifiche che possano funzionare non sarebbe una resa alle ragioni politiche altrui o una sconfessione delle proprie, ma un atto dovuto ai cittadini. 

da La Stampa, 11 febbraio 2024

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