Poteri meno speciali

Lo studio di Stagnaro e Riganti sui rischi dello scudo contro gli investimenti esteri

29 Novembre 2021

MF-Milano Finanza

Argomenti / Diritto e Regolamentazione Teoria e scienze sociali

Qualche proposta per il mercato libero e più di una provocazione. E se il golden power fosse una misura, neanche troppo mascherata, di protezionismo piuttosto che uno strumento per tutelare l’interesse nazionale e proteggere infrastrutture e beni critici da appetiti stranieri? O ancora: davvero il regolamento Ue che ha facilitato gli aiuti di Stato e favorito i poteri speciali è nato solo in risposta al rischio che la pandemia di Covid-19 potesse favorire comportamenti predatori da parte di soggetti ostili, pronti ad approfittare delle strutture economiche europee debilitate dalla crisi sanitaria?

A porsi le domande, nel bel mezzo della partita Tim, sono Carlo Stagnaro e Federico Riganti, rispettivamente direttore Ricerche e Studi e fellow dell’Istituto Bruno Leoni, in uno studio appena pubblicato col supporto della Diana Davis Spencer Foundation. «Questo golden power sembra più una rete a strascico», spiega Stagnaro a MF-Milano Finanza.

«Prendiamo il caso più eclatante che tiene banco ora: l’offerta di Kkr per Tim. Sentiamo invocare i poteri speciali ma nessuno che ne spieghi davvero i motivi. Perché un fondo che opera in Italia e in Europa, con sede negli Usa, sarebbe una minaccia al pari di una società russa o cinese? Un conto è dire che possono esserci problemi di sicurezza nazionale su alcuni asset, altro è pensare di entrare a gamba tesa quando un vero pericolo non c’è».

Ma il tema resterebbe attualissimo anche senza il caso Tim, perché mentre si va verso l’eliminazione graduale del quadro temporaneo sugli aiuti di Stato, varato dall’Ue in piena emergenza Covid, vengono proposte altre norme per un controllo più approfondito sugli investimenti provenienti da Paesi terzi, col rischio, paventato nello studio, di alzare barriere tra gli stessi membri Ue. «L’errore è alla base, nasce quando si è deciso di estendere i poteri speciali a tutti i settori ad alta densità tecnologica. E’ come dire che potenzialmente tutto il sistema manifatturiero è esposto all’intervento del governo», osserva Stagnaro.

«E’ ovvio che con un esecutivo come quello attuale il rischio di un uso compulsivo del golden power non c’è, ma abbiamo visto proprio di recente governi pronti invece ad alzare lo scudo con maggiore frequenza». La prima conseguenza sarebbe un cortocircuito su tutti gli investimenti esteri diretti. Nei mercati, sostengono Stagnaro e Riganti, «si assisterebbe probabilmente non solo a un innalzamento dei costi, innanzitutto legali, in capo agli operatori stranieri, anche in caso di investimenti esteri diretti infine ritenuti non pericolosi, ma in merito ai quali, nel dubbio, l’investitore si è uniformato alle complicate procedure nazionali di notifica, bensì anche a un progressivo rafforzamento di quel mix potenzialmente critico tra una concezione di Stato regolatore e un’idea di Stato imprenditore».

Qual è allora la strada individuata dai liberisti? Il modello è il golden power di Mario Monti: perimetro di applicazione limitato ad alcuni asset e non a interi settori definiti strategici senza distinzioni. «L’esempio ci riporta a Tim: il ricorso ai poteri speciali si potrebbe applicare alla rete telefonica ma non all’intero comparto delle telecomunicazioni», semplifica Stagnaro. L’altra proposta è quella di un’applicazione su base geografica. La golden power non andrebbe applicata a soggetti provenienti da Paesi Ue e allo stesso tempo si dovrebbe prevedere una corsia comunque agevolata per gli operatori dei Paesi Nato o aderenti all’Ocse, quelli cioè che condividono gli stessi assetti istituzionali dell’Europa, «mentre le aziende di Paesi come Cina e Russia andrebbero esaminate più da vicino».

Il documento prevede anche di eliminare il quadro temporaneo nonché i controlli esistenti sugli investimenti esteri, adottandone uno più completo, basato su alcune caratteristiche: valutare i mercati di riferimento e applicare la disciplina degli investimenti esteri solo alle operazioni al di sopra di una certa soglia, in funzione delle dimensioni del mercato stesso nonché dell’esistenza di infrastrutture e beni ritenuti critici per la sicurezza; rimuovere qualsiasi barriera o controllo sugli investimenti da parte di imprese stabilite in uno Stato membro e definire a livello Ue i casi in cui le autorità nazionali possono interferire con investimenti o transazioni commerciali. Infine, «eseguire valutazioni periodiche dei regimi di aiuti di Stato nei Paesi stranieri, in particolare i partner commerciali più importanti dell’Ue e quelli da cui provengono la maggior parte degli investitori in asset e infrastrutture strategiche».

da MF – Milano Finanza, 27 novembre 2021

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