Più scuole meno Stato

Dal pensatoio più anti-centralista d'Italia una lezione di buon senso per liberare l'educazione dalle direttive del ministero. Intervista a Serena Sileoni, vicedirettore dell'Istituto Bruno Leoni

23 Settembre 2016

Tempi

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Se uno dovesse provare a dire quale sia, nelle questioni riguardanti la scuola e l’educazione, il principio guida dell’Istituto Bruno Leoni, un pensatoio che si proclama «liberale, liberista, mercatista» e «nato per promuovere le “idee per il libero mercato”», probabilmente inizierebbe a comporre parole a caso che cominciano o finiscono in liberal-qualcosa.
E invece prendete per esempio il tema della “educazione all’affettività” o “educazione di genere”, l’ultimo di cui si è occupato l’Ibl in un editoriale pubblicato online dopo che il ministro Stefania Giannini, il 9 settembre scorso, ha promesso che il governo spenderà i soldi dei contribuenti per insegnare agli insegnanti a «parlare d’amore» in classe.

Chi mai oserebbe contestare l’impellenza di simili corsi di aggiornamento nell’era mediatici del femminicidio e dell’omofobia? Eppure, ha scritto l’Ibl e conferma il suo vicedirettore Serena Sileoni in questa intervista, d’accordo che sono cose importantissime, ma occhio a non perdere di vista il buon senso. Ecco: prima ancora che i metodi didattici, i princìpi costituzionali, le scuole di pensiero economico-filosofico e gli allarmi sociali, quando si parla di scuola bisognerebbe utilizzare il buon senso. È da questo, suggerisce l’Ibl, che discende la necessità di “liberare la scuola” dal monopolio statale.

Dottoressa Sileoni, perché sostenete che l’intento di dotare i docenti del «lessico dell’amore», come lo chiama il ministro Giannini, sia un problema economico e soprattutto di buon senso?
Il problema economico è consequenziale al fatto che è un problema di buon senso: il buon senso dice che per queste cose non ci sarebbe bisogno di corsi. Si dà per scontato che gli insegnanti educhino al rispetto degli altri e di se stessi.
Eppure non solo questo tipo di formazione, secondo l’annuncio del ministro, sarà previsto dalle linee guida in preparazione per metà ottobre, ma addirittura ci saranno soldi dedicati. Al “Tempo delle donne” del Corriere della Sera Giannini ha garantito che «un segmento» dei 40 milioni di euro destinati ogni anno alla formazione dei docenti sarà dedicato a quella che noi abbiamo chiamato “educazione sentimentale di Stato”.

Lo sa che esistono proposte di legge depositate in Parlamento che la chiamano esattamente così, “educazione sentimentale”?
Ah ecco. Io pensavo di usare un’espressione colorita.

Torniamo ai fondi pubblici.
Un segmento di 40 milioni saranno pure spiccioli rispetto al bilancio dello Stato, però di spicciolo in spicciolo si crea la cassaforte di Paperon de’ Paperoni.
È anche un problema simbolico: sentiamo ripeterci in continuazione che la spesa pubblica non si può tagliare ulteriormente perché ormai è rimasto solo il necessario, poi si scopre che il necessario è costituito da voci che non solo non sembrano necessarie, ma che sono addirittura contrarie al buon senso. A me pare assurdo che si debba formare un insegnante perché da solo non riesce a capire che mentre insegna italiano deve anche stare attento a diffondere la cultura del rispetto.

Tendenzialmente sulla scuola, come su quasi tutto, la vostra linea è: fuori lo Stato, meno se ne occupa e meglio è.
È sempre una questione di buon senso. Chiunque ha dei figli sa che le esigenze di apprendimento non sono tutte uguali. Esistono diverse condizioni ambientali, sociali, culturali, anche geografiche.
Come si può pensare di costruire una istruzione unica dettata da Roma valida tanto per il ragazzo che vive in Val d’Aosta quanto per quello che vive a Milano e per quello che vive alle Tremiti? Questo per fortuna si è iniziato a capire, infatti siamo passati dai programmi ministeriali alle linee guida, dove ci sono margini di flessibilità per le scuole e per gli stessi insegnanti. Resiste però ancora l’idea che ci sia una educazione ufficiale, quella dettata del ministero. Lei le ha mai lette le direttive ministeriali?

Mai avuto il piacere.
Beh, per quanto siano state rese flessibili, se un insegnante vuole, praticamente gli viene spiegato cosa deve fare in classe dalla prima all’ultima ora. Ma chi l’ha detto che ci debba essere un’istruzione “ufficiale” per cui si insegna Montale ma non Saba? Lo dice il burocrate del ministero? E quale scienza infusa hanno gli uffici del ministero che gli insegnanti non avrebbero? Ovviamente in un certo senso tutto questo è inevitabile: finché l’istruzione sarà vista come un servizio unico e pubblico, si tenderà sempre a renderla omogenea e uniforme. Mancherà sempre la pluralità dell’offerta che può esistere solo se esiste una pluralità di soggetti che erogano il servizio formativo.

A questo proposito, fra i vostri dossier c’è parecchio materiale sulle cosiddette “free school”, che già esistono in alcuni paesi e che hanno in parte ispirato la proposta di Andrea Ichino e Guido Tabellini per “liberare la scuola”, di cui abbiamo scritto in abbondanza anche su Tempi. Vuole spiegarci in termini semplici cosa sono le scuole libere?
Sono una terza via. Scuole pubbliche che però hanno una piena autonomia curriculare, e possono “mettersi sul mercato”. Non vivono solo di rimborsi spese a piè di lista, né di erogazioni dal centro con cui debbono pagare tutto, e se poi finiscono i soldi tocca ai genitori comprare i pennarelli. La loro sostenibilità economica, cioè, è costruita sulla base di un contributo pubblico (calcolato secondo determinati criteri, come per esempio il numero degli iscritti) ma in più possono reperire risorse nel mercato. Che può voler dire semplicemente tra i genitori, non necessariamente finiscono per farsi sponsorizzare da qualcuno. Il risultato è che in Svezia, nel Regno Unito e negli Stati Uniti, dove esistono esperienze di questo tipo, in generale i bilanci delle free school funzionano molto meglio dei bilanci delle scuole pubbliche. È un esempio molto calzante di sussidiarietà orizzontale, un principio che in Italia è riconosciuto dalla Costituzione ma non è mai stato attuato.

E secondo lei cominceremo ad attuarlo proprio a partire dalle scuole?
Ma le free school in realtà basterebbe volerle. Adesso l’apertura di ogni scuola è pianificata dal punto di vista territoriale, a decidere è l’ente pubblico: i comuni, le province quando c’erano. La free school invece la fa chi vuole, dove vuole: un insegnante, un comitato di genitori insoddisfatti della scuola del loro quartiere. Ci si organizza, si fa un piano di bilancio, lo si presenta al ministero che ne valuta la sostenibilità e si apre la free school. Come si fa per le aziende. È una valorizzazione non solo della libertà di scelta educativa, ma anche della libertà di fare le scuole dove se ne individua il bisogno. Non è detto che a Roma conoscano a dovere le esigenze formative di tutte le zone d’Italia.

I vantaggi per la collettività si misurerebbero sia in termini economici sia di qualità dell’educazione?
Sarebbe bello provarlo. Dal punto di vista economico, come è spiegato nel nostro paper, l’esperienza dimostra che ogni alunno di una free school costa alle casse pubbliche meno di un alunno di una scuola pubblica. Dal punto di vista della qualità formativa, consideri solo che l’autonomia di queste scuole è piena anche nella selezione del corpo docente. Detto fuori dai denti: gli insegnanti si possono scegliere e si possono licenziare. Non sono pubblici dipendenti. Sono contrattualizzati dalle scuole.

Questo settimanale, a proposito di pluralismo educativo, sostiene da sempre il modello della parità scolastica. Qualche mese fa, però, in un altro editoriale l’Ibl sembrava voler far capire ai cattolici “paritari” che è finito il tempo di «pietire privilegi», bisogna invece «rivendicare la libertà di scelta», attraverso il buono scuola per esempio.
Sì, perché in realtà la paritarietà delle scuole è una conferma del fatto che esiste un’unica scuola: quella ufficiale, quella autorizzata dal ministero, o perché è pubblica, o perché è riconosciuta come tale. Le paritarie sono le forme più avanzate di alternativa alla scuola statale che abbiamo, ma hanno qualcosa di statale anche loro, che è l’autorizzazione ministeriale. Il voucher, anche dal punto di vista organizzativo, è una evoluzione dell’offerta formativa: io, Stato, non ti metto tra l’incudine e il martello, non ti obbligo a decidere tra prendere un servizio pubblico oppure acquistare un servizio privato continuando a pagare anche per il servizio pubblico di cui usufruiranno altri, ma ti metto in mano un assegno e tu sceglierai come spenderlo. Nel modello italiano chi decide di stare fuori dalle scuole statali è costretto a pagare due volte. Il sistema dei voucher è più equo e consente una piena libertà di scelta alle famiglie. Detto questo, comunque, viva la scuola paritaria.

Sempre sia lodata. Ma è ancora sostenibile, in uno Stato che è così al verde che riesce a malapena a mantenere le sue, di scuole?

Credo che prima o poi i conti andranno fatti. E, di nuovo, torniamo alla sussidiarietà orizzontale: o lo Stato continua a finanziare le scuole paritarie, ma chiude le sue, oppure rischia di non trovare le risorse necessarie per farle restare in piedi entrambe.

Il buono scuola della Lombardia va nella direzione indicata dall’Ibl?
Fondamentalmente è la stessa cosa. Poi naturalmente è anche una questione di dimensioni dell’assegno.

Invece la mini detrazione introdotta dal governo Renzi per le rette pagate dalle famiglie che mandano i figli alle paritarie? È un inizio di rivoluzione?
Le detrazioni apparentemente sono sempre una cosa fantastica. E in questo caso appianano almeno in parte l’iniquità di cui abbiamo parlato. Il problema italiano delle detrazioni è che ne abbiamo così tante che alla fine il senso progressivo delle tasse rischia di perdersi. Mi spiego: se il sistema fiscale fosse lineare, le detrazioni avrebbero senso; ma il nostro sistema praticamente è fatto di detrazioni, perciò a me fa sorridere quando si dice che il fisco non rispetta un criterio di progressività perché le aliquote sono troppo poco differenziate. Non lo rispetta casomai perché siamo sommersi di eccezioni alla regola. In più c’è il fatto che quando le deroghe sono così tante, possono sfuggire anche al contribuente più attento. E forse sono così tante proprio per questo.

Che idea si è fatta sulla “buona scuola”?
Ne abbiamo scritto a più riprese. Mi è sembrato l’eterno ritorno del vecchio. La stabilizzazione dei precari, il concorsone… Un po’ buffo anche il buono di 500 euro per l’attività formativa degli insegnanti. È ingiusto.

Lei dice: la formazione è un’esigenza che avrebbero tutti?
Sì, queste sono veramente mance. Un tema serio è invece l’autonomia dei presidi nella scelta degli insegnanti.

Questo, da liberali, lo avrete valutato positivamente.
Non riesco ad avere un’opinione precisa. Di primo acchito direi: finalmente un criterio meritocratico nella scuola, finalmente l’autonomia. Però non c’è santo che tenga: finché restano dipendenti pubblici, introdurre qualsiasi criterio di merito diventa rischioso. Io infatti capisco chi solleva l’obiezione per cui basterà che si instauri un cattivo rapporto umano tra un preside e un docente perché questo rischi di essere cacciato. Sono cose che capitano anche nelle imprese private, ma nelle imprese private se un datore di lavoro licenzia un bravo collaboratore per un ghiribizzo, a farne le spese per primo è il datore stesso. Quando invece si parla di luoghi di lavoro pubblici, dove ultimamente non è il responsabile a rischiare in proprio, questa dinamica salta.

La critica principale che circola sulla buona scuola è: alla fine, stringi stringi, è stata solo l’ennesima infornata di assunzioni.
Ecco, stringi stringi, non so quanto ci sia di riforma. A parte questa novità dei presidi, che dovremo valutare in atto.

Da Tempi, 28 settembre 2016

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