Perché la solita patrimoniale non può salvare il welfare

La patrimoniale esiste già in varie forme: tassare ancora i patrimoni non salverà il welfare e rischia di danneggiare famiglie e investimenti

17 Novembre 2025

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

Puntuale come l’inizio dell’Avvento, è arrivata la discussione sulla patrimoniale. È un cavallo di battaglia di certa sinistra, che anche quest’anno (come ogni anno) sostiene che in Italia la rendita non sia tassata a sufficienza e sogna fiumi di denaro che consentano di «salvare lo Stato sociale». Come se il governo stesse tagliando le pensioni minime o riducendo il numero di medici e ospedali.

Sul tema, sarebbe opportuno avere una discussione sensata e pacata, nel senso che la coperta del fisco può essere tirata da una parte o dall’altra, cercando, se possibile, di ragionare sugli effetti. Una ventina di anni fa Giulio Tremonti sosteneva che l’imposizione dovesse passare «dalle persone alle cose». Ovviamente questo non significa che le «cose» paghino le tasse. L’idea era aumentare le imposte su patrimoni e consumi per ridurla sui redditi, nell’auspicio che ciò potesse accrescere l’incentivo a lavorare di più.

Per avere una discussione pacata, però, bisognerebbe almeno non dire le bugie. E la bugia più grossa è che oggi in Italia un’imposta patrimoniale non ci sia. Ce ne sono molte. Le tasse sugli immobili: l’Imu, la stessa Tari che è calcolata sui metri quadri. Le tasse sulle attività finanziarie, a cominciare dalle imposte di bollo. Inclusa l’imposta sul valore delle cripto-attività. La tassazione del rendimento dei patrimoni. Le imposte sulle donazioni e successioni.

Sono tasse più «giuste», più «eque», perché vanno a colpire «la roba»? Fa sorridere persino ricordarlo: le tasse non vengono pagate dai «patrimoni», così come non vengono versate dalle «case» o dalle fantomatiche «rendite». Sono pagate dalle persone, che di solito attingono al proprio reddito. Quando questo non è loro possibile, si creano problemi non piccoli.

Pensiamo all’esempio più evidente. Circa il 45% della ricchezza complessiva delle famiglie italiane consiste in immobili abitativi. Una delle peculiarità del nostro Paese è che il 72-75% delle famiglie è proprietaria di almeno un immobile, tipicamente l’abitazione in cui vive. Questo dato è superiore alla media europea, che si attesta intorno al 69% per la prima casa. Inoltre, il 26% degli italiani possiede almeno un secondo immobile.

Basta ciò a farne dei ricchi? Anzitutto, la casa di proprietà non è un investimento: è un consumo, nel senso che è l’equivalente di pagare l’affitto per avere un posto nel quale vivere. Ci sono svariate ragioni per cui le persone possono preferire una cosa all’altra, ma che un individuo acquisti l’appartamento in cui vive pensando di fare un investimento, ovvero traguardando il momento in cui potrà venderlo a un prezzo superiore di quello a cui l’ha comprato, è abbastanza raro. Del resto, se nelle grandi città le abitazioni negli ultimi anni si sono molto rivalutate, non è necessariamente così in campagna e nei piccoli centri, dove vive la maggioranza della popolazione italiana.

L’immobile di proprietà, in quel caso, può diventare una piccola maledizione. Case di ampia metratura rappresentano talora un costo, soprattutto in un Paese che invecchia e nel quale i nuclei familiari tendono a diventare più piccoli. Immaginiamo che una imposta maggiore colpisse quel patrimonio: se per pagarla le stesse famiglie dovessero alienare l’immobile in questione, e a prezzi molto bassi, la patrimoniale sarebbe tutto fuorché il preteso vettore di equità che dovrebbe essere.

Chi alza la bandiera della patrimoniale tende a sventolare un piccolo saggio di Luigi Einaudi, scritto nel 1946. Persino il più noto fra i liberisti italiani sarebbe stato a favore della patrimoniale, contro il partito dei ricchi. Si dimentica il contesto nel quale Einaudi prese posizione a favore di un’imposta sui patrimoni.

Era appena finita la guerra, l’Italia era in una situazione precaria, il bilancio pubblico era claudicante e bisognava restituire fiducia nell’economia e nelle istituzioni. In quel momento, Einaudi riteneva che una patrimoniale straordinaria fosse auspicabile perché colpiva coloro che avevano accumulato ricchezza (anche, magari, grazie ai proventi dell’economia di guerra) e poteva contribuire a riequilibrare le finanze pubbliche senza penalizzare ulteriormente il reddito da lavoro o i consumi, che erano stati falcidiati dal conflitto.

Per l’economista di Dogliani, l’imposta patrimoniale era uno strumento eccezionale e temporaneo, non come una tassa ordinaria. Già allora Einaudi metteva in guardia contro il mito dell’imposta patrimoniale come «unica imposta democratica». «Non esiste una distinzione “sostanziale” fra imposta sul reddito ed imposta sul capitale o patrimonio», ma le differenze formali diventano apparenze su cui la politica costruisce i propri slogan.

A tutto ciò, la risposta dei fautori della patrimoniale è che essi hanno in mente tutt’altro: i famigerati grandi patrimoni. Come ha scritto Pietro Reichlin sulla Stampa, i famigerati super-ricchi tendono però ad avere più attività che immobili. Se le prime sono, per esempio, la partecipazione in un’impresa familiare non quotata (com’è il caso di molti imprenditori), come se ne presume il valore?

Inoltre coloro che hanno un grande patrimonio hanno più facilità nel votare con i piedi e spostarsi in una giurisdizione più favorevole. L’Italia cerca di attrarne con la cosiddetta flat tax per stranieri. Che ha reso ancor più evidente un problema: chi è molto ricco magari vive con piacere in Italia, ma non necessariamente ci investe. Le chiacchiere sulla patrimoniale sicuramente non gli fanno cambiare idea.

oggi, 19 Novembre 2025, il debito pubblico italiano ammonta a il debito pubblico oggi
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