Perché l'innovazione ci salva

Anche se siamo 8 miliardi

28 Novembre 2022

Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Ambiente e Energia Teoria e scienze sociali

La popolazione mondiale è arrivata a 8 miliardi di persone. Le nostre società tendono a considerare l’aumento della popolazione una minaccia. L’idea è grossomodo la seguente. Il pianeta terra è un grande «bene comune» rispetto al quale ciascuno di noi è una specie di parassita. Se aumenta il numero di parassiti, due sono le conseguenze possibili: il peggioramento della qualità della vita per ciascun parassita o un rapido depauperamento delle risorse naturali stesse.

La versione più recente di quest’ultimo argomento è che una popolazione maggiore ha un impatto più rilevante sul clima. L’Ipcc afferma che «a livello globale, il Prodotto interno lordo pro capite e la crescita della popolazione sono rimasti i più forti motori delle emissioni di CO2 derivanti dall’uso dei combustibili fossili».

Questa frase suggerisce non solo che più persone significano maggiori consumi, ma che viviamo in un mondo nel quale una popolazione crescente riesce anche a migliorare continuamente il proprio tenore di vita. Milioni di persone, in Asia, sono passati nell’arco di poco più di una generazione dalla bicicletta al motorino e dal motorino all’automobile. Altrettanti sono passati da forme rudimentali di riscaldamento a immobili con qualche comfort in più. La percentuale della popolazione mondiale che vive al di sotto della soglia di povertà, fissata a livello internazionale a 1,90 dollari al giorno, è oggi circa il 10%: nel 1990 la percentuale era pari al 37%. Nello stesso periodo, la popolazione mondiale è aumentata di due miliardi di persone.

Discutiamo di potenziali catastrofi dovute all’aumento della popolazione perlomeno dagli anni Settanta, dall’epoca dei saggi di Garrett Hardin da una parte e del club di Roma dall’altra. Hardin ha scritto sulla «tragedia dei beni comuni» a partire dall’idea che fosse impossibile forzare i vincoli di scarsità. Per Hardin ogni Paese era una sorta di scialuppa di salvataggio in un mare in tempesta: più solide quelle delle nazioni più ricche, traballanti e straripanti di gente quelle delle più povere. Agli ultimi della terra non restava che gettarsi in acqua e cercare asilo sulle imbarcazioni «di lusso», ammesso che li facessero salire. La metafora era efficace e in qualche modo segna anche oggi i nostri dibattiti.

In realtà negli ultimi cinquant’anni è successo esattamente ciò che a Hardin riusciva inimmaginabile. Abbiamo forzato i vincoli di scarsità: siamo arrivati a produrre più cibo e a creare più ricchezza, ovviamente capita che ci siano individui o famiglie che una volta se la passavano meglio di ora, ma in generale è cresciuta la torta, non abbiamo dovuto fare a pugni per le fette. Questo è dovuto a due fenomeni diversi ma convergenti: l’innovazione tecnologica, che ha toccato non solo la produzione (pensate alla rivoluzione verde) ma anche la capacità di conservare gli alimenti e i mezzi di trasporto e di comunicazione. E l’ampliamento del circuito degli scambi, che ha fatto entrare nell’economia mondiale intere popolazioni che erano costrette a forme più o meno radicali di isolamento: e che hanno potuto scambiare prodotti agricoli, manufatti e lavoro col resto del pianeta.

L’esito più eclatante è, su scala mondiale ciò che avevamo conosciuto nei Paesi «ricchi» come il nostro un secolo, un secolo e mezzo fa: cioè la riduzione della mortalità infantile. Dove lo sviluppo economico non è ancora arrivato, essa conta per circa la metà della mortalità complessiva. Se guardiamo alla speranza di vita alla nascita, osserviamo che negli anni Cinquanta in Asia era di vent’anni inferiore che in Europa, oggi meno di dieci anni separano i due continenti. E che anche in Africa è decisamente cresciuta. Nel mondo la speranza di vita alla nascita è di 73 anni. Nel 1950, era intorno a meno di 50.

Chi è più ansioso riguardo al futuro della popolazione ha due paure.

La prima è che questo fenomeno non si fermi: cioè che la popolazione continui a crescere, dal momento che si riduce la mortalità infantile. Questo, in realtà, non lo sa nessuno. Il bisogno di fare figli e formarsi una famiglia accompagna gli uomini dall’alba dei tempi, ma l’esperienza di Paesi come il nostro suggerisce che forse non è una caratteristica imperitura della razza umana. Il numero di figli per donna sembra essere correlato a variabili culturali ed economiche: come il reddito pro capite ma anche il livello di istruzione. In molti sottolineano l’importanza dei regimi politici. Però l’Iran teocratico degli ayatollah vede nuclei familiari molto più piccoli della Persia laica dello Shah. Come suggerì Lant Pritchett in un vecchio paper, l’unico buon predittore del numero di figli è la dimensione socialmente accettata dei nuclei familiari.

L’altra paura è che con gli esseri umani aumentino i parassiti della madre Terra. Ma attenzione: l’innovazione che ci ha fatto «forzare» i limiti di scarsità non si deve solo ai grandi innovatori come Norman Borlaug. È un processo «dal basso», al quale hanno apportato creatività e idee milioni di persone. Più esseri umani sono anche più cervelli, per risolvere i nostri problemi.

Da Corriere della sera–Economia, 28 novembre 2022

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