Perché il terrorismo (numeri alla mano) c'entra poco o nulla con la povertà

Se si vuole affrontare il terrorismo, meglio studiare e capire il terrorismo

11 Gennaio 2017

Il Foglio

Carlo Stagnaro

Direttore Ricerche e Studi

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Alzi la mano chi non ha pensato, almeno una volta, che povertà e terrorismo hanno qualcosa in comune. La tentazione di istituire un nesso causale è così forte che neppure il Papa ha saputo resistere. Parlando davanti al Corpo diplomatico, Francesco ha detto che “il terrorismo fondamentalista è frutto di una grave miseria spirituale, alla quale è sovente connessa anche una notevole povertà sociale”. Ha pertanto esortato i governi ad adottare “adeguate politiche sociali volte a combattere la povertà, che non possono prescindere da una sincera valorizzazione della famiglia, come luogo privilegiato della maturazione umana, e da cospicui investimenti in ambito educativo e culturale”. Non è la prima volta che il Pontefice indica la povertà come causa della violenza fondamentalista: lo aveva fatto, tra l’altro, all’indomani degli attacchi di Parigi, trovando l’autorevole sponda dell’economista Thomas Piketty. Sullo stesso tema, del resto, aveva indugiato pure il vescovo di Sulmona, monsignor Angelo Spina, celebrando i funerali dí Fabrizia Di Lorenzo, la ragazza italiana uccisa nell’attentato di Berlino. Combattere la miseria deve senza dubbio essere un obiettivo primario della politica economica, anche se non sempre le misure proposte con l’obiettivo di contrastare la povertà hanno l’effetto sperato talvolta accade il contrario. Disegnare strumenti di policy efficaci non è, in ogni caso, sufficiente: occorre anche evitare di caricare sui provvedimenti anti povertà aspettative eccessive, specie in relazione a risultati che esse non possono ottenere. La ricerca economica di cui hanno parlato, tra gli altri, Luciano Capone e Marco Valerio Lo Prete sul Foglio, e Rosamaria Bitetti sul blog Econopoly si è spesso esercita

La tesi secondo cui il terrorismo sarebbe figlio della povertà è più o meno questa: se la società non offre la possibilità di una vita dignitosa, persone che altrimenti sarebbero “normali” finiscono per arruolarsi nei gruppi estremisti. Alla base del terrorismo vi sarebbe, insomma, un disagio sociale che deriva un po’ dalla mancanza di prospettive, un po’ dall’impossibilità di incanalare sofferenze e frustrazioni in modo più costruttivo (banalmente: investendo su famiglia e lavoro). Quindi, basterebbe dare un’occupazione ai potenziali terroristi, e questi avrebbero altro per la testa che farsi saltare in una piazza o un teatro affollato. Se questa intuizione fosse corretta, i terroristi dovrebbero provenire soprattutto dagli strati più poveri dei paesi più sfortunati. Invece non è così. Il “decano” di questo filone di ricerca è Alan Krueger, economista di Princeton e già capo dei consiglieri economici di Barack Obama. In un paper del 2002 scritto a quattro mani con Jitka Maleckova, egli argomenta che “qualunque connessione tra la povertà, la scolarizzazione e il terrorismo è indiretta, complicata e probabilmente piuttosto debole”. Al contrario, il terrorismo andrebbe visto come “una risposta alle condizioni politiche e a una perdurante situazione (percepita o reale che sia) di disagio e frustrazione che ha poco a che fare con l’economia”. Il suo lavoro più noto è un libro del 2007, What Makes a Terrorist, nel quale Krueger studia il caso della Palestina, trovando un risultato per certi versi sorprendente: i kamikaze sono mediamente meno poveri e più istruiti della popolazione in generale. Non solo: questo vale anche per i loro supporter, cioè per la “constituency” a cui i terroristi si rivolgono. I terroristi, insomma, sono tutt’altro che poveri e ignoranti. Questo, per inciso, era vero anche ieri. Uno studio di molti anni fa, condotto da Charles Russell e Bowman Miller nel 1983 sull’estremismo politico (incluse le “nostre” Brigate rosse), arrivava esattamente allo stesso punto: in quel caso, circa due terzi dei terroristi individuati erano addirittura in possesso di una laurea e provenivano da ceti medio-alti. Un altro studioso, Alberto Abadie, si è concentrato sul terrorismo internazionale, e pure qui ha rilevato un legame molto debole con la povertà. Piuttosto, sono le condizioni politiche a influire molto sul comportamento dei potenziali terroristi: paradossalmente, il focolaio più pericoloso non sono i paesi del tutto privi di libertà politica, ma quelli che si sono sganciati da un regime autoritario senza ancora arrivare a un pieno riconoscimento dei diritti civili e politici delle persone.

Più recentemente, Seung-Wang Choi della University of Illinois ha mostrato che la crescita economica non è necessariamente una risposta alle velleità terroristiche: l’analisi dei dati su 127 paesi nel periodo 1970-2007 “mette in evidenza che quando i paesi godono di maggiori livelli di sviluppo industriale, sono meno proni a eventi terroristici nazionali e internazionali, ma è più probabile che subiscano attacchi suicidi. Questi risultati indicano che la crescita economica non è una soluzione sempre valida per il terrorismo perché in alcuni casi può essere associata con un aumento degli attacchi” (anche se i paesi più ricchi sono maggiormente in grado di difendersi dal terrorismo). Analoghe conclusioni arrivano da numerosi altri studi. Naturalmente, come tutte le analisi anche queste vanno lette con cautela: non è detto che i terroristi contemporanei seguano gli stessi percorsi di quelli del passato. Ma, per quanto ne sappiamo, la povertà non è certamente il motivo per cui alcuni individui decidono di votarsi al terrorismo. In sostanza, l’evidenza economica suggerisce che il terrorismo difficilmente può essere combattuto “comprando” i terroristi con un salario decente e sicuro, le villette a schiera e il giardino all’inglese. L’estremismo, specie quando porta gli individui a sacrificare se stessi pur di colpire il nemico politico o religioso, è un fenomeno complesso, che affonda le radici nell’ideologia. Questo implica che le crociate anti povertà possono produrre innumerevoli conseguenze positive, ma difficilmente faranno calare gli attacchi terroristici. Se si vuole affrontare il terrorismo, meglio studiare e capire il terrorismo: esattamente come, se si vuole rispondere alla povertà, occorre studiare e capire la povertà.

Da Il Foglio, 11 gennaio 2017

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