Perché il consumatore USA sarà la prima vittima dei dazi

I dazi alzano i prezzi dei prodotti e colpiscono chi dovrebbero difendere: le piccole imprese e i consumatori americani

6 Ottobre 2025

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Economia e Mercato

Nei giorni scorsi, il New York Times ha pubblicato un ampio servizio sulle difficoltà che i dazi dell’amministrazione Trump stanno causando alle imprese piccole e medie. Sembrerebbe paradossale. Come tutti gli ismi, anche il protezionismo apprezza il capitalismo solo formato bonsai. L’impresa piace alla politica finché è piccola, per dimensioni (pmi) o ragioni anagrafiche (start up). Il big business, almeno a parole, non commuove nessuno. I protezionisti non a caso si presentano come i difensori delle botteghe contro la grande distribuzione e delle produzioni nazionali contro le grandi corporation. Trump non sfugge alla regola.

Ma come al solito la realtà economica non rientra perfettamente nelle “mappe” che se ne fanno i politici e i commentatori. Secondo uno studio della Federal Reserve di Atlanta, l’86% delle aziende statunitensi che importano merci via mare ha meno di 50 dipendenti. Inoltre, a differenza delle imprese più grandi che hanno catene di approvvigionamento diversificate, le ditte più piccole importano solitamente merci da un unico fornitore e da un unico Paese. Il liberation day, per loro, è stato una roulette russa.

Il quotidiano newyorkese portava un paio di esempi rilevanti: un rivenditore di calzature, che importa scarpe principalmente dall’Europa. L’impresa è troppo piccola per fare ciò che hanno fatto industrie di maggiore dimensione, cioè aumentare gli ordini e riempire i magazzini mentre Trump annunciava, minacciava, ritraeva i nuovi dazi. I prezzi al consumo dovranno aumentare e comunque l’azienda si trova a fronteggiare costi che ne mettono a repentaglio il modello di business.

L’altro esempio era quello dei fiorai. Chi mai pensava che venissero tassati anche i fiori? Gli Stati Uniti ne importano da Ecuador e Colombia, esattamente come noi ne acquistiamo da Ecuador, Kenya ed Etiopia. Sia Ecuador che Colombia sono fra i Paesi meno colpiti dai provvedimenti trumpiani (hanno dazi rispettivamente del 15 e del 10%) e tuttavia l’incertezza e l’aumento dei costi per un fioraio impongono soluzioni creative. Per esempio, mazzi più piccoli per mantenere gli stessi prezzi, sperando che la differenza non si noti troppo.

C’è qualcosa che non quadra, nel racconto europeo del protezionismo trumpiano. Da questa parte dell’oceano detestiamo Trump e siamo convinti che stia sabotando il club delle democrazie al quale noi e gli Stati Uniti siamo iscritti. Nello stesso tempo, però, siamo sostanzialmente convinti che il Presidente americano stia facendo qualcosa che nuoce a noi e al mondo, ma fa bene all’America. Questo perché forme più sottili e meno roboanti di protezionismo costituiscono la ragion d’essere della fortezza Europa agli occhi di molti dei suoi sostenitori.

A furia di chiamarle, con terribile anglicismo, “tariffe” (come fossero quelle del telefono o dell’elettricità), ci siamo dimenticati che sono tasse. Tasse che pagano importatori e, alla lunga, consumatori americani.

Due economisti che si occupano di commercio internazionale, Gary Clyde Hufbauer e Ye Zhang, hanno pubblicato un’interessante analisi per l’American Enterprise Institute. Si sono chiesti se i dazi trumpiani hanno effetti coerenti con l’obiettivo brandito dall’amministrazione, cioè rafforzare il settore manifatturiero.

A dispetto del racconto prevalente, spiegano Hufbauer e Zhang, il manifatturiero americano non è in crisi. È senz’altro diminuita l’occupazione nell’industria, un po’ come avvenuto in tutti i Paesi ricchi. Nell’età dell’oro della manifattura (diciamo fino al 1968) circa un terzo degli occupati lavorava in uno stabilimento: oggi è poco più del 7%. Negli Usa è successo un po’ quello che è accaduto anche da noi: la contrazione del numero degli occupati, dal momento che non coincide con un andamento simile della produzione, suggerisce che la produttività nel settore manifatturiero sia aumentata più che in altri.

«Tra il 2016 e il 2023, la produzione per lavoratore nel settore manifatturiero è stata superiore di 1,3 punti percentuali rispetto all’economia nel suo complesso, rispetto al 2,5% in più registrato tra il 1987 e il 2000 e al 3,7% in più registrato tra il 2000 e il 2010».

I protezionisti di destra e sinistra si aggrappano al ricordo di un’ipotetica età dell’oro dell’industria, che avrebbe pagato alti salari che hanno consentito a milioni di americani una vita soddisfacente. Ma il fatto che tante più persone lavorino nei servizi anziché nell’industria riflette in larga misura una loro preferenza, peraltro coerente con la più universale attitudine umana: la preferenza per fare meno fatica fisica anziché di più.

Secondo Hufbauer e Zhang, per azzerare il deficit commerciale nel manifatturiero, cioè per creare le condizioni affinché vengano “reimportate” tutta una serie di produzioni, il dazio medio dovrebbe essere del 42,5%. Essi stessi spiegano che a questa cifra ci si arriva con alcune ipotesi molto ardite.

Sulla base di quanto fatto finora, Trump non riporterà il mercato del lavoro Usa agli anni Sessanta: l’occupazione nell’industria potrebbe arrivare al 9%. Con costi molto alti: «il costo per gli acquirenti americani di beni manifatturieri per ogni posto di lavoro creato grazie alla protezione tariffaria sarà elevato, circa 225.000 dollari all’anno per ogni posto di lavoro per un periodo indefinito».

Ne vale la pena? È una domanda che dovranno farsi i cittadini americani.
A noi il compito di ricordarci che loro sono le prime vittime del protezionismo e dunque che, se pure potessimo farlo, imitare Trump non sarebbe una grande idea.

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