Perché conviene ascoltare i giudici

La Corte dei conti blocca il Ponte di Messina: il governo reagisce con polemiche politiche anziché correggere gli errori procedurali

3 Novembre 2025

La Stampa

Serena Sileoni

Argomenti / Teoria e scienze sociali

La decisione della Corte dei conti sul Ponte di Messina è cronaca di un diniego annunciato. Un mese fa, la Corte aveva trasmesso al governo il suo parere sulla delibera Cipess contestata, nel quale individuava una serie di incongruenze e lacune di tipo procedurale e sostanziale, alcune molto serie, che non possono non aver messo il Governo in allerta. È in quel momento che, almeno a Palazzo Chigi e al Mit, il piano tecnico e quello politico si sono sovrapposti, impedendo ora anche solo una ricostruzione pacata della vicenda.

A costo di pedanteria, per capirla bisogna invece andare oltre lo scontro tra magistratura e politica, utile solo a titillare tifoserie già in curva.

A luglio, la ormai famosa delibera approvava il progetto definitivo del Ponte. Si può dire, per intendersi, che sia stata la posa della prima pietra nel procedimento di costruzione dell’infrastruttura. In quanto atto di governo, è stata trasmessa prima della pubblicazione alla Corte dei conti, perché svolgesse il controllo preventivo di legittimità.

I principali atti di governo sono infatti sottoposti a questo controllo, col quale si verifica che non violino le leggi su cui si basano. Per questo si esercita sugli atti dell’esecutivo e non su quelli parlamentari. È del tutto pretestuoso e serve solo a fare confusione accusare quindi i magistrati contabili, come ha fatto Fratelli d’Italia, di aver usato due pesi e due misure col Ponte e il Superbonus, poiché questo venne approvato – ahinoi – con legge.

Alla fine di settembre, i magistrati contabili hanno formulato una serie consistente di osservazioni relative a incongruenze, carenze istruttorie tecniche e difformità del procedimento rispetto agli obblighi di legge. Tra queste, vi erano rilievi non rimediabili che evidenziavano forzature non superabili, a partire dalla verifica dei costi che avrebbe imposto al governo di indire una nuova gara secondo le regole di appalto, impedendogli di recuperare un affidamento precedente. La delibera, e con essa il procedimento a monte, sono indubbiamente complessi e complicati, ma questo e altri rilievi sono tali da far venire il dubbio che, pur nella difficoltà delle carte e delle procedure, qualche pasticcio sia stato fatto, come nella stima dei costi (calcolati senza quantificazione degli aumenti derivanti dalla revisione dei prezzi) e del traffico atteso, cioè del ritorno dell’investimento.

Una soluzione, però, ci deve sempre essere. In effetti, di fronte al parere della Corte il governo poteva scegliere di ritirare in autotutela il provvedimento e rifare le cose con più ordine e cura; o aspettare che i nodi venissero al pettine per poi gridare “ahia!”.

Tra le due possibilità, Meloni e Salvini devono aver convenuto sulla seconda, magari per motivi non proprio identici. In comune, c’è stata probabilmente la constatazione che per trasformare una sconfitta in vittoria occorresse capitalizzarla politicamente. Resta il dubbio che alla Presidente del Consiglio un eventuale stop forzato e esterno sul Ponte convenga molto più che al vice Presidente del Consiglio. Meglio dare oggi la colpa agli altri che doversi addossare domani un possibile fallimento.

Ad ogni modo, la Corte dei conti, scaduto il termine di legge per la risposta del governo, si è riconvocata per decidere definitivamente e lo ha fatto, a motivo della delicatezza della vicenda, in adunanza plenaria.

L’esito è cronaca di questi giorni: i magistrati hanno bocciato la delibera interrompendo quindi il progetto del Ponte. Anche se le motivazioni non sono ancora depositate, è possibile immaginare che non si discostino da quelle, note, del parere di settembre. Nel frattempo, il governo ha fatto esplodere il caso politico e nel dibattito pubblico sono ormai ininfluenti le ragioni giuridiche, completamente oscurate da una polemica accesa come diversivo rispetto al merito amministrativo e giuridico.

Non c’è da stupirsi che l’esecutivo abbia scelto questa strada. In Italia, pochi conflitti sono eterni e aspri come quello fra politica e giustizia. Serrare i ranghi delle proprie tifoserie, mentre su altri versanti (la riforma della giustizia) la magistratura adotta esattamente la stessa strategia, è tutto sommato una scelta razionale, almeno per Meloni. L’unico modo per evitare questa degenerazione della discussione pubblica non è chiedere che smettano di buttarla in cagnara, ma provare a esercitare un dovere di informazione serio e accorto, che provi a capire il merito delle cose tagliando la strada alle polemiche inutili. Solo così ci si può attendere che, la prossima volta, si facciano le cose per bene, dall’inizio.

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