Perché dico no a una nuova Iri

Partecipazioni statali: se l'azionista pubblico usa il danaro dei privati per il proprio potere di controllo

26 Aprile 2023

La Repubblica

Franco Debenedetti

Presidente, Fondazione IBL

Argomenti / Politiche pubbliche

Caro Direttore,
la “battaglia per le nomine degli amministratori delle maggiori società italiane a partecipazione pubblica” è finita, scriveva Luigi Zanda su questo giornale il 19 aprile, “esattamente come con i governi di coalizione del passato: ogni partito si è preso la sua fetta”. Ha certo ragione quando accusa l’evidente diseconomia di avere due azionisti, la Cdp e il Mef, alla guida di un gruppo di grandi aziende, anziché affidare questo compito a una holding di Stato: sarebbe questa “la lezione del’Iri”.

Sicuro? La storia narra una lezione diversa: nel 1992 tra Iri, Eni ed Efim, (cioè tra Dc, Psi e Psdi) avevano accumulato debiti per 30.000 miliardi di lire, che con la trasformazione in Spa di cui lo Stato era l’unico azionista, sarebbero diventati debito dello Stato. Senza l’accordo Andreatta-Van Miert quello che secondo Zanda era un “gruppo compatto a servizio della politica industriale del Paese” ne avrebbe provocato il fallimento.

“Senza una testa industriale che sappia coordinare l’azione delle partecipate è impossibile promuovere una strategia” complessiva. In realtà questa strategia l’aveva definita la Dc con la relazione di Rumor al congresso del 1949: programmazione economica finalizzata “al maggiore assorbimento di mano d’opera”. E 64 anni dopo Giorgia Meloni teme ancora che i “tanti fenomeni che hanno a che fare con la modernità” comportino che “all’aumento della produzione non corrisponda aumento dell’occupazione”. Altra costante è l’intervento dello Stato nel Mezzogiorno: nel 1962 il doppio vincolo, che il 60% dei nuovi investimenti e il 40% del loro totale dovesse essere allocato nel Mezzogiorno, comportò la decisione di costruire un nuovo centro siderurgico a Taranto, “che tanti danni condusse agli Achei”. Una situazione non poi così diversa dall’attuale vincolo sui fondi Pnrr al Sud.

Se le aziende partecipate non sono gestite in modo coordinato è perché esse operano nel mercato e competono con aziende terze. Dato che non sono monopolisti nei rispettivi mercati (lo vieterebbe l’Europa) il coordinamento, altrimenti noto come collusione, sarebbe dannoso: o la missione pubblica va a scapito dei risultati di esercizio o va a scapito di altre aziende che non godono del favore della politica, o entrambe le cose.

Sarebbe interessante se Luigi Zanda volesse precisare in che modo “l’apporto dell’Iri ai governi del boom” abbia determinato “le condizioni di base della ricostruzione e della modernizzazione dell’Italia”. Il miracolo economico verrebbe dunque dall’infrastrutturazione e dall’industria pesante spronata e sussidiata dallo Stato? L’una cosa e l’altra le abbiamo avute, per la verità, anche dopo. Ma non abbiamo più avuto il boom. Non sarà che il miracolo qualcosa debba a ciò che non era Stato, alla generazione spontanea di imprese private fuori e lontano dagli interessi della grande impresa pubblica, non cioè nell’industria pesante ma in quel mondo “casa e bottega” che è poi diventato la galassia del “made in Italy”?

Il successo dell’Autostrada del Sole dimostra quanto sia necessaria le presenza dello Stato nella costruzione delle grandi infrastrutture nazionali; la direttissima Roma-Firenze, rimasta isolato prototipo europeo dell’Alta Velocità, dimostra quanto sia insufficiente. L’”attacco al suolo” alla rete di cavi coassiali da parte della Stet, timorosa di perdere il monopolio nella trasmissione dei segnali televisivi, dimostra quanto questa presenza possa essere deleteria.

Il “controllo di un consistente patrimonio industriale da parte dello Stato”, secondo Zanda può avere senso solo “se la sua missione pubblica va oltre i risultati d’esercizio delle singole imprese”. Che si tratti di imprese a controllo pubblico o privato, strategia è una parola insieme salvifica e ingannatoria: ma se è già difficile individuare la strategia di una singola azienda, quale intelligenza sarà necessaria per “tenere insieme un patrimonio molto variegato trasformandolo in un gruppo compatto a servizio della politica industriale del Paese?”

Obiezioni rilevanti, ma che pure non vanno al punto centrale: l’intrinseco, inevitabile conflitto di interessi nelle imprese controllate dallo Stato ma con partecipazione di azionisti privati. Questi hanno un solo interesse, l’incremento di valore della propria partecipazione. Accanto a questo, l’azionista pubblico ha un interesse prevalente, il potere politico che deriva dal controllo: usa il danaro degli azionisti privati per il proprio potere di controllo.

da La Repubblica, 25 aprile 2023

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