Siamo il Paese delle riforme "fatte e disfatte"

Come spiegano Stagnaro e Saravalle nel libro "Molte riforme per nulla" edito da Marsilio

13 Novembre 2022

Il Mattino

Serena Sileoni

Argomenti / Diritto e Regolamentazione Teoria e scienze sociali

In Italia, sono tante, da tanti anni le riforme non solo promesse, ma anche “tentate, fatte, disfatte, mancate, abrogate”, come ricordano Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle in un bel libro da poco uscito per Marsilio, “Molte riforme per nulla“. Il libro commenta, divisi per materie e settori, dozzine di provvedimenti con i quali dagli anni Novanta, cioè dalla cosiddetta seconda Repubblica, fino all’era Pnrr i governi hanno cercato di cambiare le cose. Eppure, se chiedessimo alle persone quanto queste dozzine di provvedimenti abbiano inciso sulla loro vita, è probabile che della maggior parte di esse non se ne siano accorte. Non solo, è anche probabile che mostrino un moto di insofferenza a parlare e sentir parlare di riforme, nella ormai consolidata percezione di ritrovarsi sempre punto e a capo. Non ci sarebbe da stupirsi. 

Nonostante 6 riforme sulla Pa, 11 sulla giustizia, 6 sulla concorrenza, 5 sulle partecipazioni pubbliche, 4 sul lavoro, 8 sulle pensioni, 5 sulla politica industriale, 12 sul fisco, l’Italia è un paese che non cresce in economia, non si sviluppa in innovazione, non consolida i vantaggi raggiunti, non ringiovanisce demograficamente. Nei tre decenni in cui sono racchiuse queste catene di interventi, il Pil pro capite in termini reali, è cresciuto del 14,9%. La media dell’eurozona è del 40,4%; negli Stati Uniti, del 57,2%. Durante la transizione cinese verso l’economia socialista di mercato, pare che Deng Xiaoping avesse detto che non ha importanza Il colore del gatto, finché riesce a catturare il topo. Se volessimo traslare l’immagine nel nostro paese, potremmo usarla per descrivere cosa non è andato nel percorso di riforme. 

Se il topo fosse la crescita del benessere dei cittadini, potrebbe dirsi che le riforme hanno sistematicamente fallito l’obiettivo di migliorare la condizione socio-economica delle persone, permettendo loro di realizzarsi e perseguire le loro inclinazioni. Continuiamo infatti ad aver un pesante rapporto debito/Pil del 150%, secondo più alto d’Europa, con una vitalità media delle imprese di 12 anni, un indice di natalità che ci fa essere terzultimi in Europa (1,2 figli per donna), un livello di competenze dei nostri ragazzi in lettura e scienze inferiore, secondo l’indagine Pisa, alla media Ocse. Forse, il problema è che il gatto è stato scambiato per il topo: non importa quali riforme si fanno, purché si possa dire di averle fatte. Certo, fare le riforme che servono non è semplice, almeno per due motivi. 

Primo: esiste un divario temporale tra il momento in cui occorre farle e il momento in cui è utile che siano state fatte. Un divario che richiede coraggio politico e quindi forza di governo, necessari a far capire all’opinione pubblica che esse servono anche se attualmente le cose vanno bene, al fine di essere preparati quando le cose andranno meno bene. Ne sappiamo qualcosa in termini di ristrutturazione del debito: aver avuto una spesa pubblica allegra e una crescita economica triste ci ha fatto trovare in difficoltà durante la pandemia e ora con la crisi energetica. Non a caso, dalla pandemia la Germania si è indebitata molto più di noi in termini assoluti, ma in termini relativi il rapporto debito/pil tedesco è aumentato di soli 9 punti percentuali, mentre in Italia di 11 (in valori assoluti, in Germania il debito è aumentato di circa 551 miliardi di curo mentre in Italia circa 348 miliardi di euro, ma con un’incidenza sul Pil rispettivamente del 134% e del 145%). Per questo primo motivo, siamo abituati ad affrontare i problemi in modo e con strumenti emergenziali, laddove per emergenza non si intende una condizione improvvisa di urgenza a provvedere, ma la necessità politica di dover provvedere in fretta, per non averlo fatto prima. Ma la fretta è cattiva consigliera, e approntare riforme in tempi di emergenza può solo esasperare i compromessi, impedire una ponderata valutazione dei costi e benefici, intervenire con rattoppi. 

Secondo: fare le riforme ha un costo transitorio. Passare da una regolazione a un’altra vuol dire in un sistema giuridico estremamente stratificato come il nostro scontentare qualcuno. Le posizioni di rendita non sono solo quelle più evidenti dei tassisti o dei balneari, ma anche quelle di ogni cittadino che vede l’agevolazione di cui beneficia e non vede, non può vedere, il complesso di oneri a cui è sottoposto. Vale per il sistema fiscale, ma vale anche, ad esempio, per la concorrenza o il mercato del lavoro. Fare le riforme vuol dire mettere una cesura tra un prima e un dopo da cui qualcuno smetterà di, e qualcun altro comincerà a, ricevere dei benefici: se le riforme sono buone, il trade off sarà positivo, vuoi in termini di un numero maggiore di persone vuoi in termini, ancor più auspicabili, di un maggior interesse generale.
 
Gestire la transizione richiede non solo competenze tecniche, ma anche una buona dose di stabilità e coraggio per segnare quella cesura e mantenerla, requisiti che mancano alla politica italiana. Entrambi questi motivi basterebbero a spiegare perché, in un contesto politico immaturo come quello italiano, le presunte riforme non bastano e non sopravvivono. E perché forse della retorica riformista l’elettore medio non si fida più. Forse un po’ lo hanno capito i partiti, se è vero che nella (per fortuna) noiosa campagna elettorale estiva di riforme si è parlato meno del solito. L’impostazione del Pnrr voluta dal governo Draghi ha provato a rispondere a entrambi questi motivi: ha previsto e calendarizzato non solo gli investimenti, ma anche le riforme che da anni si dice che servano (giustizia, concorrenza, fisco, pubblica amministrazione) con un programma a lungo termine, blindandole sia rispetto alle emergenze (specie quelle presunte), sia rispetto alla cattura dei governi di turno da parte delle tante constituencies esistenti. 

Vedremo se questo metodo diverso, che Draghi ha potuto cogliere nell’eccezionalità delle condizioni date dal Next Generation EU, darà i suoi frutti e sarà seguito anche da Giorgia Meloni, che dovrà garantirsi la rata di dicembre anche rispettando impegni sulle riforme. Intanto, per agevolare il compito, dovremmo forse abituare l’opinione pubblica a un linguaggio diverso, meno consunto rispetto a quello riformista. E dovremmo soprattutto cominciare a pensare che le riforme siano il gatto, non il topo.

da Il Mattino, 13 novembre 2022

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