Il Novecento? Lo trovate per intero nel teatro di Tom Stoppard

E' in scena a Broadway “Leopoldstadt”, vicende di ebrei viennesi che sono un po' la biografia del geniale autore

14 Novembre 2022

Il Foglio

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

E ’una storia raccontata centinaia di volte”. Il signore che è uscito assieme con me dal Longacre Theatre prende il braccio alla moglie (l’amica, la fidanzata, la sorella…). Non lo dice con tono scocciato. Siamo appena riemersi da due ore nel secolo breve. Qualcosa ci ha fatto ripensare a Israel Singer, qualcos’altro ad Anna Frank, qualcos’altro a Stefan Zweig. Soprattutto a Stefan Zweig.

In una conferenza a Oxford, qualche anno fa, Tom Stoppard raccontava la sua liberazione dai fantasmi della letteratura. Comincia a fare il giornalista a diciassette anni (“i giornali sono la natura umana data alle stampe”, dirà Max in Rock ’n’ Roll), ma a ventuno si mette in testa di voler scrivere materiale più durevole. E nell’Inghilterra di quegli anni questo per lui significa: teatro. Quando arriva il successo (quasi subito), gli fa impressione che i suoi dialoghi diventino libri, è emozionato nel vedere la prova di copertina di Rosencrantz and Guildenstern sono morti. “Quando scrivi una commedia, sei serenamente autosufficiente, come se stessi scrivendo un sonetto”. Lo impara col tempo: un volume con il nome di Samuel Beckett nel frontespizio somiglia a un altro col nome di Tolstoj, ma gli somiglia soltanto. Dove da una parte c’è una storia completa, conclusa, per l’appunto già scritta, dall’altra c’è l’anticipazione di un evento che deve ancora avvenire.

Stoppard è un maestro del dialogo e non c’è una sua opera, film inclusi (pensate solo a Shakespeare in Love), che non denunci la banalità del nostro parlare, la goffaggine delle parole che nella vita vera ci escono dalle labbra quando dobbiamo dire cose importanti, e peggio ancora quando dalle cose importanti restiamo lontani. Dovendo indicare un dialogo che avrebbe voluto fosse suo, però, una volta ha scelto la scena del Fuggitivo in cui Harrison Ford è messo alle strette, e sta diluviando, e in mancanza di meglio urla al suo inseguitore Tommy Lee Jones: “Sono innocente”. Jones risponde: “I don’t care”, che in italiano diventa “non me ne frega niente”. Quel non me ne frega niente, sostiene Stoppard, è un tocco di genio. Ci dice che ciò che stiamo vedendo non c’entra niente con la giustizia, col bene e il male l’un contro l’altro armati. E’ un poliziotto che dà la caccia a un ricercato e lo fa perché per quello, non per altro, gli pagano lo stipendio. Per Stoppard scrivere teatro è il modo più versatile di raccontare storie e queste storie, per l’appunto, non sono sempre nuove, forse sono proprio le stesse.

Non sempre raccontarle riesce così bene come con Leopoldstadt. E’ l’ultimo play di Tom Stoppard, ha debuttato nel West End, sotto stelle non proprio propizie: quelle del gennaio 2020. Ora è a Broadway, al Longacre Theatre, dopo essere passato da Vienna. Leopoldstadt è il distretto attraversato dalla Pazmanitengasse, dove stava la più grande sinagoga della capitale austroungarica, distrutta nella notte dei cristalli. In nove scene, dal 1897 al 1955 osserviamo la famiglia Merz perdersi nel Novecento. Sulla loro vicenda incombono questioni capitali: che cos’è l’identità, che cosa accade quando essa si fa discorso politico, che succede quando la storia passa come un treno sugli esseri umani.

Hermann Merz è un imprenditore coi fiocchi, lo incontriamo soddisfatto e ottimista nel suo panciotto, è il 1897. Sa bene che il mondo è cambiato nel tempo di una generazione e c’è da andarne fieri. “Non si poteva viaggiare senza permesso, né trovare un letto per la notte in un villaggio o in una città, tranne che nel quartiere ebraico (…) chi viveva a Vienna, chi abitava a Leopoldstadt, doveva portare un distintivo giallo e scendere dal marciapiede per lasciar passare gli austriaci”. “Mio nonno portava un caffetano, mio padre andava all’opera in cilindro e io invito a cena i cantanti – e attori, scrittori e musicisti”.

Hermann vive intensamente quella che Stefan Zweig chiamerà, con rimpianto (“prima della guerra ho conosciuto la forma e il grado più alti di libertà individuale – e dopo, il punto più basso raggiunto da secoli”), “l’età della sicurezza”. Pensando al padre Moritz, industriale tessile, Zweig spiega che “diventare ricco per un ebreo rappresenta soltanto un gradino intermedio, un mezzo per giungere al vero fine (…) Il suo reale desiderio e ideale immanente è l’ascesa al mondo intellettuale, a una sfera culturale più alta”. Hermann Merz è stato tagliato nella stessa stoffa: “Siamo letteralmente adoratori della cultura. Quando facciamo soldi, è a questo che servono, metterci al centro del cuore pulsante della cultura viennese. E’ questa la Terra promessa, non un posto su una mappa da dove provenivano i miei antenati”. “Da lungo tempo ormai abbiamo rinunciato alla religione dei nostri padri, alla loro fede in un rapido e costante progresso dell’umanità (…) se anche i nostri padri obbedirono soltanto a un’illusione, essa era pur sempre molto più nobile e bella, molto più umana e feconda dei vuoti slogan di oggi” (Zweig). Hermann Merz: “Ora siamo austriaci. Austriaci di origine ebraica! Siamo solo uno su dieci, ma senza di noi l’Austria sarebbe la Patagonia delle banche, della scienza, del diritto, delle arti, della letteratura, del giornalismo”.

Leopoldstadt è una storia raccontata centinaia di volte ma guai a smettere di farlo. Il mondo di ieri che si sbriciola, il nazionalismo che conquista la cabina di pilotaggio del secolo, le cannonate incomprensibili della Prima guerra mondiale, quelle inevitabili della Seconda. Suo cognato, Ludwig, legge Theodor Herzl con interesse, Hermann non lo capisce e lo spettatore, che pure sa come andrà a finire tutto, galleggia nei dubbi. La fine degli imperi multinazionali era segnata e nel mondo nuovo non c’è altra partita che quella degli stati nazionali? Ha ragione Nellie, la figlia di Ludwig, che nel 1924 sventola bandiere rosse perché “non esiste più una bandiera per il posto che occupavamo: borghesi ebrei liberali. O la bandiera rossa, o lo stendardo della vecchia guardia, a un passo dal fascismo”? Sul palco del Longacre non si sdottoreggia: si fa teatro. Stoppard non ha misteri da svelare, non vuole dirci che c’era, lì e bell’e pronta, un’altra strada, magari l’avessimo presa. I suoi protagonisti ne avranno incrociati di tipi trasandati dalle parti dell’accademia di belle arti ma non ce lo raccontano. L’ansia che condividiamo con loro è quella delle domande senza risposte ovvie, dei pezzi del puzzle che non si incastrano. Della storia con la S maiuscola che può solo calpestarci.

Questa vicenda narrata centinaia di volte è un po’ anche quella di Tom Stoppard, o meglio di Tomáš Straussler, nato a Zlín, in Cechia, il 3 luglio 1937. Zlín è la cittadina della Bata, fondata dal figlio di un ciabattino, Tomáš Bata. Come ricorda Hermione Lee nel suo magistrale Tom Stoppard. A Life (Faber and Faber, 2020), i Bata sono capitalisti-paternalisti: costruiscono alloggi per i loro operai e scuole per insegnare loro il mestiere. S’intestano anche un ospedale, diretto dal dottor Bohuslav Albert: 320 posti letto, 26 dottori. Fra questi, un certo numero di medici ebrei, a cominciare dal dottor Eugen Straussler.

Il 29 settembre 1938, l’accordo di Monaco consente alla Germania di annettersi parte della Cecoslovacchia. Il primo novembre, le truppe tedesche occupano i Sudeti. Il 15 marzo 1939, il resto del paese. I Bata se ne vanno: Jan Antonin Bata in America, il nipote Thomas in Canada. La loro è ormai un’impresa multinazionale e la dirigono da oltreoceano. Albert, il direttore dell’ospedale, aveva annusato il vento di quello che stava per capitare e aveva cominciato a contattare altre sedi Bata in giro per il mondo, per consentire ai medici ebrei di avere un posto dove fuggire. Il 23 marzo, una settimana dopo l’invasione, viene impedito loro di praticare la medicina. E’ grazie a una coppia di amici, i Gellert, e all’infatuazione per la signora Gellert di un ufficiale della Gestapo, che gli Straussler riescono a partire per Singapore. Tomáš ha diciotto mesi, suo fratello Petr tre anni. Hermione Lee ricorda che Stoppard ha flirtato a lungo con l’idea di scrivere “un’autobiografia in un mondo parallelo”. Qualcosa del genere rimane in Rock ’n’ Roll, play arcistoppardiano del 2006 nel quale il protagonista, Jan, è nato a Zlín ed è ebreo, la sua famiglia è scappata all’arrivo dei nazisti ma poi è ritornata in patria, nel 1948.

Nell’impero del sole, di cui Stoppard ha scritto la sceneggiatura per Steven Spielberg, a un certo punto un inglese intima al padre di Jim (Christian Bale bambino) di andarsene in un posto sicuro: Singapore. Nel febbraio del 1942, in Malesia va in scena una catastrofica sconfitta per l’impero britannico, coi giapponesi che nel giro di una settimana si impadroniscono dell’arcipelago (la città rimarrà sotto il controllo nipponico sino a Nagasaki). Nelle settimane precedenti la caduta di Singapore gli inglesi organizzano l’evacuazione ma Marta, la madre di Tomáš, cerca di restare più a lungo possibile, nella speranza che sia possibile andarsene tutti assieme, anche col marito Eugen, che intanto si è arruolato volontario. Il 31 gennaio Marta, Tomáš e Petr sono su una nave diretta in India. Il padre Eugen resta fino a metà febbraio, quando si imbarca, non è chiaro se sul Vyner Brooke, un mercantile requisito e attrezzato alla bell’e meglio per consentire la fuga di malati e dottori, o sulla Redang, dove hanno trovato posto molti impiegati cechi della Bata. Entrambe le navi vengono affondate il 14 febbraio, lo stesso giorno in cui Marta e i bambini arrivano in India. Nel subcontinente si sposteranno più volte ma è mentre vivono a Darjeeling che Marta conoscerà il maggiore Kenneth Stoppard, che sposerà a Calcutta il 25 del suo pensiero: “Abbiamo scoperto che la storia non la fanno gli intellettuali. La storia è piuttosto come il tempo: non sai mai che tempo farà”. La sponda dell’utopia racconta precisamente di come gli intellettuali pensano di fare la storia anche se non la fanno, di quelli che si accorgono di non farla, come Alexander Herzen, e di quelli che non penseranno mai che le briglie possano sfuggirgli di mano, tipo Michail Bakunin e un tedesco molto scuro di carnagione che passa il tempo rintanato al British Museum. Belinsky – un russo occidentaleggiante, ma in realtà immerso fino al collo nelle tradizioni del suo paese, che capisce che sarà la letteratura russa (non la rivoluzione) a incantare il mondo – è una figura chiave. E’ fra i pochi intellettuali che riescano a contemplare due idee diverse contemporaneamente: lo spirito del tempo lo spinge a venerare Ragione, ma l’esperienza e proprio l’essere russo lo portano a inclinare verso un buon senso più terragno.

Stoppard descrive, non senza l’ammirazione che si deve loro, pensatori che desiderano il potere, ma un potere particolare: il potere di trasformare per il meglio la società. E questo potere però può funzionare, può esistere davvero, come si accorge l’Herzen stoppardiano, solo se la società è un meccanismo, un sistema che si può governare in maniera meccanica. Noi possiamo pensare di cambiare il mondo soltanto se possiamo credere di aver compreso come funziona davvero: una conoscenza misteriosa, celata ai più, ma che si può ottenere, che è a nostra portata di mano, a patto di ricorrere agli strumenti opportuni. C’è sempre chi sorride di Karl Marx, che da una parte è convinto di avere scoperto nientemeno che il senso della storia (“la grande ruota del progresso”), e dall’altra anziché sedersi sul fiume e aspettare il cadavere del sistema capitalistico, che pure un certo giorno dovrà passare, nelle vicende del movimento operaio ci si butta a capofitto, briga e combatte come può, tutto preso da una battaglia d’idee che pure altro non dovrebbero essere che superfetazioni d’interessi marmorei. Ma forse c’è poco da stupirsi. Perché pensare di avere capito come si formano le maree sociali è la premessa necessaria per credere di cavalcarle. Solo chi sa cosa è “necessario” alla marcia della storia può sperare di batterne il tempo. 

I marxisti trasformano il “capitalismo” in un sistema che funziona secondo principi deterministici, senza capire che un’economia libera non è poi molto di diverso dalle scelte delle persone che, ogni giorno, la compongono. Così per i radicali russi raccontati da Stoppard anche l”‘ancien régime” e l’autocrazia erano “sistemi”: macchine da smontare per poi rimontarle, poteri cui sostituirne un altro di segno contrario. I rivoluzionari, ammonisce Herzen, pensano “di poter distruggere perché sono radicali. Invece distruggono perché sono conservatori delusi, ingannati dallo stesso antico sogno di una società perfetta dov’è possibile la quadratura del cerchio e l’abolizione di ogni conflitto”. Di conflitti è piena la nostra vita, il grande teatro e anche la nostra identità, che è pericoloso ricondurre negli schemi rigidi dei nazionalisti e che nello stesso che non evapora tanto facilmente come vorrebbero i cosmopoliti. Letto, visto, ascoltato oggi, questo teatro di Stoppard è una specie di corso accelerato su cosa è stato il Novecento e varrebbe la pena lo frequentassero in molti. Ci ricorda quali sono gli impulsi e le domande che hanno mosso il secolo, e dove ci hanno condotto le risposte più frequenti. “Quando i filosofi iniziano a parlare come architetti, andatevene finché siete in tempo”, grida il Belinsky stoppardiano, “il caos è alle porte. Quando inizieranno a stabilire regole per la bellezza, da quel momento il sangue nelle strade sarà inevitabile”.

da Il Foglio, 12 novembre 2022

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