Non si fanno le liberalizzazioni a metà

Il governo non è stato in grado di includere nel «pacchetto» quella che di fatto è l'economia del futuro

19 Marzo 2015

Panorama

Andrea Giuricin

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Le liberalizzazioni non arrivano, nonostante i proclami del governo Renzi. Ci si aspettava un’apertura del mercato del trasporto e invece, ancora una volta, si parla di quello che sarebbe potuto essere. Questa volta si è deciso di non regolare il famoso caso Uber, l’applicazione americana, che ormai è valutata oltre 40 miliardi di dollari, ed è la punta di un grande iceberg che si chiama «Sharing economy».

L’economia della condivisione è il futuro dell’economia, ma forse il nostro governo non lo ha ancora capito. Thttavia per fare sviluppare il futuro, ci vuole un buon grado di apertura, con poche regole, ma ben chiare. A poco servono le raccomandazioni del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi, che ha promesso in futuro di regolare il tutto con un decreto legge.

Uber è stata al centro dell’attenzione a causa delle proteste dei tassisti. Di fronte alla possibilità di liberalizzare il servizio, il governo si è impaurito e ha fatto una marcia indietro non troppo velata. Ma come mai Uber, che è solo un’applicazione che mette in contatto la domanda e l’offerta, fa così paura al governo e ai tassisti? Le proteste dei tassisti sono comprensibili poiché la categoria perde una posizione di monopolio e i vantaggi che ne derivano. Meno comprensibile è la lentezza del governo nel comprendere il fenomeno, che ormai è quanto meno globale. È chiaro che una regolazione anti-liberalizzazioni, come quella che vorrebbero í tassisti, rischia di uccidere Uber e al contempo di dare un chiaro segnale che l’Italia non è troppo aperta al cambiamento. L’oggetto del contendere è il servizio Uber Pop, dove ogni utente dell’applicazione può diventare un conducente con la propria vettura. I tassisti evidenziano delle problematiche fiscali e giuridiche per tale servizio, ma di fatto è una mera difesa della loro posizione. Il «driver» di Uber ha l’obbligo di dichiarare i propri introiti dell’attività, che non possono diventare il reddito prevalente. Inoltre le transazioni sono effettuate con la carta di credito e sono perfettamente tracciate (un sistema da fare invidia all’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco). Come un tassista dovrebbe fare sempre la ricevuta, così il singolo driver deve dichiarare il proprio reddito derivante dal servizio Uber Pop. L’app chiede inoltre ai propri driver un’assicurazione verso terzi.

Ora il governo non è stato in grado nel «pacchetto liberalizzazioni» di ricomprendere quella che di fatto è l’economia del futuro. Non ne ha avuto il coraggio o preferisce lasciare nell’incertezza regolatoria. Forse questa posizione è meglio di quella spagnola, dove la lobby dei tassisti ha vinto la prima battaglia contro Uber, facendo bloccare il servizio. In generale tuttavia è difficile bloccare il futuro e questo è chiaro da come l’applicazione abbia ormai raggiunto dimensioni globali. Ma l’incertezza regolatoria ha un costo, poiché scoraggia gli investimenti e la conseguente creazione di impiego. Uber è solo un caso, ma dimostra l’evanescenza del governo alla prova dei fatti e delle riforme.

Da Panorama, 19 marzo 2015
Twitter: @andreagiuricin

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