Perché non sappiamo realizzare le riforme

Il saggio di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro pubblicato da Marsilio

19 Luglio 2022

Il Secolo XIX

Argomenti / Economia e Mercato Teoria e scienze sociali

Dalla pubblica amministrazione alla giustizia, dal fisco alla politica industriale: tutti i governi hanno fallito nell’innovazione perché la macchina italiana è logora

Anche se la situazione politica è nel frattempo cambiata di colpo, anzi proprio in vista di un’eventuale crisi di governo con relative imminenti elezioni, è straordinariamente utile e istruttivo leggere il libro che Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro hanno scritto e pubblicato, per i tipi di Marsilio (251 pagine, 18 euro), qualche settimana fa: si intitola “Molte riforme per nulla” e disegna un quadro illuminante dei tentativi che i governi succedutisi negli ultimi trent’anni, in Italia, hanno compiuto per sistemare, ammodernare, razionalizzare, ribaltare, invertire, modificare l’ondivago andazzo e l’opaco bizantinismo normativo che caratterizzano dal dopoguerra i comparti più cruciali per la salute economica e sociale di uno Stato: la pubblica amministrazione; la giustizia (in particolare quella legata alla durata dei processi nel ramo civile); la concorrenza; le partecipazioni statali; il lavoro; le pensioni; la politica industriale; il fisco.

Ma l’interessante, chiara e dettagliata ricostruzione compiuta da Saravalle e Stagnaro non si limita ad essere, come recita il sottotitolo, una “controstoria economica della Seconda Repubblica”. Non è soltanto un appassionato e appassionante racconto di ciò che eravamo, di ciò che abbiamo provato ad essere – spesso pungolati dai paletti rigorosi imposti dall’Europa, usati però ancora più spesso come alibi, dai nostri governanti, per far digerire riforme impopolari e quindi per non perdere consensi – e di ciò che ancora non siamo riusciti a diventare. Il libro non vuole proporre una semplice retrospettiva, ma si augura che proprio la lezione del passato ci possa consentire di agire con maggiore incisività nel prossimo futuro.

«Non si tratta solo di guardare indietro – scrivono gli autori del volume – ma anche e soprattutto avanti. Cosa possiamo imparare dalle esperienze passate? Rischiamo di ripetere gli stessi sbagli o stavolta sarà diverso? In questi trent’anni abbiamo, per così dire, pedalato a vuoto o, meglio, abbiamo camminato in tondo: la nostra politica ha prodotto ozio senza riposo e fatica senza lavoro». La metafora fotografa alla perfezione le operose energie che la politica e gli apparati tecnici hanno impiegato in tutti questi anni in modo un po’ gattopardesco, cercando di cambiare tutto per nulla (o quasi) alla fine cambiare.

La tesi del libro, che si intuisce sin dal titolo, è che le riforme nel corso del tempo sono state fatte, ma non sono mai state risolutive. Hanno prodotto aggiustamenti ma mai epocali. Hanno provato a risolvere e a tratteggiare un futuro diverso, ma con la costante preoccupazione del presente perennemente vissuto come un’eterna campagna elettorale. In nome di alcune riforme sono caduti governi (come accadde per esempio a Berlusconi sgambettato da Bossi al grido di «Le pensioni non si toccano!»), sono cambiate maggioranze, si sono formate singolari alleanze. Ogni governo, di centrodestra o di centrosinistra, si è trovato a ereditare riforme abbozzate o a modificare riforme appena approvate affastellando così articoli, norme e commi che hanno finito per rendere ancora più farraginoso e complicato il cammino lungo la strada delle sognate semplificazioni, per ridurre le lungaggini e migliorare la qualità dei servizi offerti. Si pensi, per esempio, alle numerose riforme della pubblica amministrazione che non sono riuscite a schiodarci dal fondo della classifica europea, seguiti soltanto da Ungheria, Croazia, Grecia, Romania e Bulgaria. Addirittura, se si esaminano i punteggi delle regioni, salta fuori che la Calabria è quella messa peggio in Europa, con l’eccezione di Bucuresti-Ilfov, in Romania.

L’auspicio dei due autori è che oggi le risorse promesse dal Pnrr, occasione più unica che rara, possano finalmente diventare lo stimolo più efficace per poter compiere quel balzo in avanti che, prima ancora che politico, è culturale. «Se le riforme finora hanno fallito – osservano Saravalle e Stagnaro – è perché la macchina italiana è logora. Le patologie che abbiamo descritto derivano dalle istituzioni, dalla cultura, dalla storia politica: ogni volta che si è presentata la possibilità di porvi rimedio abbiamo scelto di non farlo e ci siamo cullati nell’illusione che, prima o poi, sarebbe arrivato l’Uomo della Provvidenza». L’ultimo, in ordine di tempo, poteva essere Mario Draghi, e i due autori spiegano in modo molto netto perché il profilo del premier, oggi, sia il più congeniale.

Draghi ci ha provato. Ha cercato di far capire agli italiani perché alcune riforme sono fondamentali per il Paese: in generale, per la sua salute economica e sociale; in particolare ora, che sono disponibili fondi che altrimenti rischiamo di non vedere mai più. «Il premier – scrivono – si è sforzato di spiegare la ratio delle riforme, i loro obiettivi, i canali attraverso cui ci si attende che possano produrre risultati. E ha ugualmente scelto quali battaglie combattere e dunque, implicitamente, quali non combattere: la politica è un delicato gioco di equilibri, un’estenuante ricerca del compromesso, e non un tiro alla fune».

Alla luce di quanto sta accadendo in queste ore e alla piega che sta per prendere la missione di Mario Draghi a Palazzo Chigi, sembrano parole quasi profetiche, ma non sappiamo ancora se vincerà il compromesso o se la fune si spezzerà definitivamente. Di certo, comunque vada a finire, l’Italia dovrà comprendere bene un concetto, è la conclusione: «Se i politici, l’informazione e l’opinione pubblica italiana hanno una colpa, è quella di aver ridotto le riforme a un mero fatto tecnico: parlare di riforme significa invece avere il coraggio di tornare alla politica».

da Il Secolo XIX, 19 luglio 2022

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