Non insaccate la libertà di salsiccia

La più parte di noi è attivamente impegnata a posticipare il proprio decesso. Ma quante maratone correre per permettersi un'indigestione di cotechino dev'essere materia strettamente personale

28 Ottobre 2015

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Il decreto è atteso a giorni. Dal primo gennaio 2016, ogni confezione d’insaccati dovrà essere contrassegnata da un talloncino: «Il würstel nuoce gravemente alla salute». Per acquistare pancetta oltre la soglia delle due fette, andrà presentato alla cassa un permesso firmato dal medico di famiglia. I salumieri dovranno obbligatoriamente tenere chiuso tre giorni a settimana: una misura d’emergenza, auspicabilmente transitoria, ma necessaria se bisogna cambiare le abitudini alimentari degli italiani. Per fortuna nulla di tutto ciò sta per accadere. Ma potrebbe, se quello che hanno scritto i giornali andasse preso alla lettera, cioè se «gli insaccati sono cancerogeni come il fumo».

Secondo il rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità, 50 grammi di carne lavorata al giorno aumenterebbero il rischio di sviluppare un cancro al colon del 18%. Questo non vuol dire che diciotto mangiatori di salsicce su cento si ammaleranno di tumore. A crescere del 18% è il rischio che quelle persone già avevano di contrarre la malattia: che è molto diverso, a seconda dei soggetti, del loro stile di vita, ma anche dei geni che hanno avuto in sorte. Fra qualche anno, i test genetici riusciranno a dirci con precisione quante probabilità abbiamo di ammalarci, e quali sono i fattori di rischio dai quali guardarci. Non sarà un proclama all’umanità: ma una stima affidabile, tarata su ciascun individuo. Oggi siamo in una situazione ben diversa. Uno studio di due ricercatori, significativamente intitolato «Is everything we eat associated with cancer?», ha preso in esame 50 ingredienti comuni ricorrenti nelle ricette dei libri di cucina. Per quaranta di essi, esistono articoli che riportano una correlazione col cancro. Possono essere studi serissimi, metodologicamente inappuntabili, che dichiarano apertamente che c’è bisogno di ricerche ulteriori, o che le correlazioni sono molto deboli. Non importa. Siamo incapaci di prestare attenzione alle note a pie’ di pagina e ai paragrafi scritti in piccolo. E’ il modo in cui funziona la nostra testa a esigere certezze. La tal cosa fa bene, la tal altra fa male: sussidiate quella, proibite questa, fate qualcosa per l’amor di Dio. Ci viene naturalmente difficile ragionare in termini di probabilità. Però è l’unico modo per soppesare i rischi. Non esistono solo situazioni «bianco e nero»: se faccio questo succede quello. Al contrario, nella maggioranza dei casi i fenomeni hanno cause complesse, ardue da districare.

La più parte di noi è attivamente impegnata a posticipare il proprio decesso. Ma è un’arte faticosa: come calibrare i nostri sforzi in un senso e nell’altro, se correre la maratona o fare indigestione di cotechino, oppure quante maratone correre per permettersi un’indigestione di cotechino, dev’essere materia strettamente personale. Purtroppo, il rischio che il nostro bisogno di certezze comprima la nostra libertà è molto elevato.

Da La Stampa, 28 Ottobre 2015

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