No, la nostra non è un’economia di guerra

Il paragone bellico è funzionale a un racconto politico: far passare l'idea che le redini dell'economia debbano passare allo Stato

19 Luglio 2022

IBL

Argomenti / Teoria e scienze sociali

In questi giorni di crisi politica si sprecano i paragoni con l’economia di guerra. È solo il punto di arrivo di una retorica bellicista che si è imposta fin dai primi giorni del Covid-19. Si capisce l’enfasi che spinge politici e commentatori a indossare l’elmetto. Bisogna però stare attenti a non confondere il film che stiamo narrando con la realtà. È vero che ci troviamo in una situazione difficilissima: forse la peggiore del Dopoguerra. Abbiamo una pandemia alle spalle, davanti il ritorno dell’inflazione e su tutto pende l’incertezza legata all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Ma le economie occidentali, per fortuna, non si trovano in un’economia di guerra e bisogna sperare che nessuno sia costretto a vivere quell’esperienza drammatica.

In un’economia di guerra, lo Stato – per far fronte allo sforzo bellico – indirizza autoritativamente i fattori della produzione alla manifattura di quei beni che servono ad andare in battaglia. In un’economia di guerra lo Stato ordina alle fabbriche automobilistiche di cambiare le piattaforme per fare veicoli militari; chiede ai contadini di fondere gli aratri e farne spade; chiede ai cittadini di consegnare l’oro alla patria per finanziare la guerra. Non solo, fortunatamente, non ci troviamo in questa situazione nel senso che non stiamo partecipando direttamente ad alcuna azione militare né dobbiamo difendere i nostri confini da qualche aggressione. Il paragone non regge neppure figurativamente: le aziende continuano a produrre i beni e i servizi che ritengono saranno domandati dai consumatori, e questi continuano a consumare i prodotti da cui ritengono di poter derivare un’utilità.

Il paragone bellico è però funzionale a un racconto politico: far passare l’idea che, in una situazione difficile come quella in cui siamo, le redini dell’economia debbano passare allo Stato. Non è un’economia di guerra che abbiamo di fronte, ma un’economia sempre più amministrata: dove lo Stato indirizza le produzioni, raziona i consumi e decide chi deve possedere quali asset. La retorica dell’economia di guerra serve a far digerire questa prospettiva, rendendola anzi attraente. Ma sarebbe esattamente l’opposto di quello che serve al paese: proprio perché oggi dobbiamo fare i conti con forti problemi di scarsità, a partire dalle materie prime, bisogna lasciare che il mercato faccia il suo mestiere. In un’economia capitalistica, è il sistema dei prezzi che determina l’allocazione delle risorse e che pone le premesse perché l’offerta dei beni troppo scarsi rispetto alla domanda possa aumentare. Rompere questo meccanismo nel nome della hybris politica è doppiamente pericoloso: in primo luogo perché non ve ne sono i presupposti, in secondo luogo perché il dirigismo disordinato e ideologico con cui dobbiamo fare i conti non può essere la soluzione ai problemi della scarsità e dell’impoverimento generalizzato della società. Esso è proprio l’essenza del problema.

19 luglio 2022

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