22 Settembre 2025
L'Economia – Corriere della Sera
Nicola Rossi
Argomenti / Teoria e scienze sociali
All’economista Nicola Rossi sta a cuore una locuzione: «distruzione creatrice». È la molla che genera innovazione, sostiene, perché dal crollo di un’impresa che non funziona può nascere un’azienda trainante che produce occupazione. È ciò che oggi manca all’Italia, dice Rossi, insieme con la volontà di rischio imprenditoriale, per emergere in un mercato sempre più competitivo, dove le maggiori aziende mondiali sono americane e cinesi e l’Europa intera si ferma parecchi passi indietro.
Lo dimostrano i dati elaborati da Kpmg per L’Economia del Corriere della Sera. In sintesi: se nel 2000 fra le 500 aziende più grandi del mondo le italiane erano 11, ora sono cinque (Eni, Enel, Generali, Intesa Sanpaolo e Unicredit). E di quei 500 colossi mondiali 138 sono americani e 130 cinesi.
«Ma è interessante passare dalla classifica sulla base del fatturato a quella per capitalizzazione, che ci parla del futuro», dice Rossi. Si riferisce all’altra graduatoria elaborata da Kpmg per L’Economia, quella delle aziende più grandi del mondo per valori finanziari: è dominata dai colossi dell’hi-tech americano da Nvidia (oltre quattromila miliardi di dollari la capitalizzazione di Borsa) a Microsoft, Apple, Alphabet, Amazon, Meta. «La distruzione creatrice non parla italiano — dice Rossi —. Qui non cambia nulla, mai».
Ex docente di Economia politica all’Università di Tor Vergata, consigliere d’amministrazione dell’Istituto Bruno Leoni, Rossi presiede la Commissione per la redazione della relazione sull’evasione fiscale in capo al ministero dell’Economia. Affronta la mancata crescita dell’imprenditoria innovativa nel suo ultimo libro, Un miracolo non fa il santo – La distruzione creatrice nella società italiana, 1861-2021.
Tutto fermo in Italia, dunque? Davvero?
«Tutto immutato o quasi. Anche se il mercato è passato da un’innovazione significativa, qui si continua a fare banca ed energia con l’aiuto dello Stato. La fotografia italiana è prevedibile, che ci sia una carenza di dinamismo è evidente da tempo».
Ma le imprese innovative ci sono.
«Sì, abbiamo le eccezioni, ma quando ci sono le eccezioni significa che la regola è un’altra. La verità è che in Italia è andata persa la carica innovativa. Abbiamo circa la metà delle startup innovative della Francia e soltanto due unicorni, le aziende non quotate che superano il valore di un miliardo, Satispay e Bending Spoons, mentre loro ne hanno una trentina. Le startup innovative in Italia non vengono incoraggiate».
In Francia lo Stato supporta molto le aziende nazionali…
«Per le startup innovative la Francia ha fatto molto, ma il problema è anche altro. In Italia le realtà innovative sono calate in un contesto scoraggiante».
Perché?
«Devono lavorare su due messaggi: fallire in fretta, crescere in fretta. Da noi il fallimento è ancora uno stigma. Il recente Codice delle crisi d’impresa, in vigore dal 2022, è farraginoso. Chiede alle startup di comportarsi come aziende mature. Bisognerebbe metterci mano. La nostra è una cultura in cui al rischio viene preferita la protezione».
Che cosa manca?
«I brevetti, per esempio. Uno dei requisiti delle startup innovative è questo, ma sono in pochi ad averlo. In Italia buona parte di queste società si occupa di software e consulenza. Costruiscono programmi, fanno app, ma i brevetti non ci sono. Non c’è il deep tech, manca la vera innovazione».
C’è personale qualificato, però…
«Vero, ma il problema è che spesso s’investe su ciò che c’è già. Dobbiamo insegnare ai giovani a rischiare, che può anche andare male, ma che quando va male si può riprovarci. Se il Paese non fa questo salto culturale è difficile generare occupazione. Le grandi aziende del Dopoguerra sono nate sul rischio, pensiamo a Ferruccio Lamborghini, alla Ferrari, alla Chicco, alla Nutella. Credere che siano gli interventi dello Stato a rimetterci sui sentieri di crescita è un’illusione. Bisogna semplicemente spingere tutti quelli che vogliono fare innovazione a farla».
E come?
«Rendendo più semplice fondare un’impresa e anche farla morire. Serve una struttura fiscale che permetta a chi parte di sostenere i costi iniziali. E poi vanno sostenute dal venture capital le scale up: le imprese a metà strada, le ex startup che devono crescere».
I fallimenti generano disoccupazione.
«No, se poi si riparte. Non si tratta di andare agli estremi, ma di ridurre i vincoli burocratici e seguire la logica della seconda opportunità: hai sbagliato, chiudi e ricomincia. Per tornare a crescere bisogna affiancare alla disciplina della finanza pubblica il dinamismo dell’economia. E la tecnologia può essere la soluzione a problemi che sembravano insolubili. Un esempio eclatante è la fatturazione elettronica: sta riducendo l’evasione fiscale».