Negozi: la libertà non può avere orari

Lo studio IBL «Gli orari di apertura dei negozi» a firma di Serena Sileoni, contesta la fondatezza giuridica delle nuove norme

22 Settembre 2014

Corriere della Sera

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Quest’anno i negozi saranno chiusi a Natale? Forse no, se vincono i supermercati. Forse sì, se a vincere saranno piccoli esercenti e sindacati. Con la proposta di legge Senaldi (Pd), che limita la possibilità di tenere aperto in qualunque giorno festivo ed è all’esame della X Commissione della Camera, è partita la battaglia sulla liberalizzazione del commercio e l’esito non è affatto scontato. «Attenzione, si lede la certezza del diritto», sostiene l’Istituto Leoni (Ibl). Che nello studio di prossima uscita «Gli orari di apertura dei negozi», a firma di Serena Sileoni, contesta la fondatezza giuridica delle nuove norme, ritenute in contrasto con gli orien [amen ti recenti della Corte costituzionale e dell’Antitrust, «Gli orari dei negozi sono stati definitivamente liberalizzati dal gennaio 2012 – è scritto -, sottraendo definitivamente la competenza a regioni ed enti locali e consegnandoli alla libera determinazione di ogni esercente». Ma ora s’«intende smentire quella liberalizzazione e ripristinare, oltre a chiusure minime obbligatorie, poteri amministrativi che mettono in discussione il principio della libertà di concorrenza». Una linea condivisa dall’Antitrust e, nota Ibl, da diverse sentenze della Corte costituzionale, che quest’anno «è tornata a chiarire che la tutela della concorrenza è strumentale all’ampliamento dell’area di libera scelta di cittadini e imprese”», E già nel 2012 aveva «rigettato le doglianze delle regioni», stabilendo che «è consentito al legislatore statale intervenire nella disciplina degli orari».

Il Parlamento
Proprio dall’Antitrust è del resto arrivato, settimana scorsa, l’assist alla grande distribuzione (e lo schiaffo al Pd). «Il progetto sulla chiusura dei negozi nei festivi viola la concorrenza», ha detto il Garante. Ma che cosa propone il disegno? La chiusura obbligatoria dei negozi per almeno 12 festività all’anno. Scelta bipartisan: da Natale al 25 aprile, da Pasqua al primo maggio (data d’apertura, quest’ultima, già contestata da Susanna Camusso, segretario Cgil). Inoltre ridà agli enti locali (Regioni e Comuni) il potere di concordare le aperture con gli esercenti. E una retromarcia rispetto al Salva Italia del governo Monti (2012), che ora consente ai negozi di stare aperti o chiusi quando vogliono. E una sorta di ritorno al pacchetto Bersani del ’98, prima liberalizzazione del settore: prevedeva 12 aperture possibili l’anno nei festivi (eccezioni per le città turistiche)e calendari decisi con gli enti locali. «Il progetto di legge introduce un potere comunale di concludere accordi territoriali non vincolanti – dice Ibl -. Per indurre i commercianti a sottoscriverli, prevede la possibilità di stabilire incentivi anche fiscali. Si torna al linguaggio degli accordi territoriali».

Gli schieramenti
Ora, il disegno alla Camera sarà modificato: deve superare il veto dell’Antitrust e la trincea degli emendamenti. «L’obiettivo è approvarlo per metà ottobre», ha detto mercoledì il relatore, Angelo Senaldi. Perciò la battaglia infuria con schieramenti compositi. Contrari l’Antitrust, i supermercati Federdistribuzione), Catene come Yamamay e Carpisa (Confimprese), Favorevoli i piccoli negozi (Confesercenti), i sindacati (Cgil), la Chiesa, primi dicono che con la liberalizzazione totale del Salva Italia sono stati generati posti di lavoro (4.200 nel 2012, soprattutto part-time a tempo determinato, per Federdistribuzione) e sono aumentati i salari di 100 milioni. I secondi segnalano lo scarso impatto sul calo occupazionale complessivo (100 mila posti di lavoro persi nel 2012-2013 nel commercio al dettaglio e all’ingrosso, dato Istat ), la disgregazione familiare, il maggior peso organizzativo dei lavoratori e la strozzatura per i piccoli negozi, meno attrezzati per aprire la domenica o a Natale (in luglio-agosto hanno cessato l’attività 5.463 dettaglianti contro 2.603 nuovi iscritti, dice Confesercenti).

L’analisi di IbI
Ciò che viene ritenuto giuridicamente ostativo da Ibl è, in particolare, la delega agli enti locali, che tocca il titolo V della Costituzione. Del resto, nel ddl Senaldi, quel che non convince l’Antitrust è proprio l’affidare a regioni e comuni il potere d’indicare una quota dei giorni di chiusura. Commenta Sileoni: «La nostra analisi mostra che una legge che ripristinasse il divieto di stare aperti in alcuni giorni sarebbe un sicuro passo indietro non solo nelle regole a cui siamo giunti con il sostegno di Antitrust e Corte costituzionale, ma anche nel principio di libertà d’iniziativa privata. Darebbe forza a una spirale deleteria, con leggi sempre rimesse in discussione». Sulla stessa linea le catene distributive, alle prese con la contrazione dei margini. «La liberalizzazione degli orari ha migliorato il servizio al consumatore e contribuito a sostenere i consumi – dice Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Federdistribuzione.
Passi indietro sarebbero in contrasto con molte pronunce di Consulta, Tar, Consiglio dí Stato». Per Confimprese «togliere libertà d’impresa significa calo di occupazione, consumi, produzione».
Resta la perplessità di piccoli e sindacati. «Senza regole si altera l’equilibrio del mercato –  dice Mauro Bussoni, segretario generale Confesercenti – Con le aperture nei festivi gli acquisti si stanno concentrando nella grande distribuzione». «Con deflazione e crisi non è questo il sistema per creare occupazione – dice Maria Grazia Gabrielli, segretario generale Silcam Cgil -. Nella formula Bersani c’era un buon mix fra aperture e chiusure, si può partire da li. Giusto avere più concorrenza, ma va tenuto conto dei contratti già firmati e delle necessità di riorganizzazione dei lavoratori, che perlopiù qui sono donne».

Dal Corriere della sera, 22 settembre 2014

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