Monti, Di Maio e quei borghesi italiani che proprio borghesi non sono

Definizioni maliziose e retorica salottiera. Rileggere Ricossa

11 Settembre 2017

Il Foglio

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Qual è il contrario di abbondantemente? A Berlino Boccaccio dice la verità. C’era sempre, a scuola, il buontempone che ti rifilava questa freddura deprimente. Alle elementari era il ragazzino intellettualmente precoce (e infatti i compagni faticavano a capirla: che ci fa Dante a Bonn? E chi è Boccaccio? Nel dubbio, i bulli lo pestavano); riproporla alle medie era già da ritardatari; al liceo, da ritardati. Dopo non so, non l’ho più sentita, ma mi dispiace non avere un’etichetta pronta: perché capita spesso di imbattersi in frasi, pronunciate da adulti raziocinanti, che sembrano composte con lo stesso criterio, dove cioè ogni parola è l’esatto opposto di quel che dovrebbe essere.

Fino a pochi giorni fa il miglior esempio che avevo era una vecchia Amaca di Michele Serra dove Travaglio era annoverato tra le “illustri ma inascoltate avanguardie di un’Italia moderata e liberale”. Tutto corretto, peccato solo che Travaglio non sia moderato, non sia liberale, non sia di avanguardia, non sia illustre e soprattutto non sia inascoltato, anzi il problema è trovare un modo incruento per toglierselo dalle orecchie. La formula corretta poteva essere: l’ingloriosa ma ascoltatissima retroguardia di un’Italia fanatica e illiberale. A Bonn Dante mente.

Con la sua definizione di Luigi Di Maio, però, Mario Monti è riuscito a buttare Serra giù dal podio: “Un raffinato borghese, con una compiuta articolazione intellettuale, mosso dal desiderio di essere e apparire moderato”. È tutta sbagliata, tutta capovolta, e rimetterla nel verso giusto sarebbe fin troppo facile. Solo una parola dà un po’ di filo da torcere: borghese. È una parola insidiosa, tanto che Luigi Einaudi proponeva di “escluderla dal novero di quelle adoperate dalle persone decise a non imbrogliare il prossimo”. Così ho cercato lumi in un capitolo di Straborghese di Sergio Ricossa, “Come riconoscere un borghese a prima vista (o quasi)”. Il borghese, diceva quel pamphlet del 1980, “non s’intruppa volentieri nemmeno per ricavarne vantaggi”, “è disposto a imputare a sé stesso il proprio eventuale fallimento”, “ama competere lealmente”, “disprezza chi è avanti senza merito, per privilegio, o chi dà via l’indipendenza per avere protezione”. In breve, è l’anti-Di Maio.

Questo in teoria; ma sappiamo bene che il borghese dell’epica liberale di Ricossa ha poco a che fare con la storia della borghesia italiana, che è spesso anzi un mandarinato in borghese. E allora non si tratta di cambiare Bonn con Berlino, perché il contrario di borghese, in italiano, è borghese. Alberto Mingardi, nella prefazione alla riedizione di Straborghese, ricordava che tutti quelli che sono stati elogiati come “grandi borghesi” Bruno Visentini, Guido Carli, Enrico Cuccia erano l’esatto opposto del borghese di Ricossa: difensori di un capitalismo di rendita da proteggere dalle incursioni dei barbari e dalla concorrenza dei parvenu. È il tipo di borghese a cui senz’altro pensava Monti, un altro del gruppo, nella sua frase di Cernobbio; ma per me che non uso allucinogeni resta misterioso il nesso Visentini-Di Maio. Escludendo le ipotesi più onorevoli (esempio: Monti non aveva capito la domanda, o al buffet servivano un vino traditore) quel che resta sono speculazioni stendhaliane o proustiane: che sia un esempio malizioso di retorica salottiera, una beffa carica di sottintesi e dissimulazioni, un modo per elogiare deridendo, una velenosa lusinga? Si finge di cooptare il parvenu nell’alta società e allo stesso tempo lo si mette in ridicolo con un’adulazione troppo sfacciata per essere creduta. A furia di blandizie, si spera di circuirlo e ammansirlo, trasformando un webmaster ruspante e di scarsa articolazione intellettuale nella caricatura di uno dei nostri borghesi con il loden.

Deliziosa manovra pigmalionica, se non fosse che queste sottigliezze, così ammirevoli in tempi normali, in tempi straordinari sono solo uno dei modi con cui un ceto dirigente di sonnambuli corre verso il suicidio. A Bonn Dante mente, a Berlino Boccaccio dice la verità, a Weimar Monti gioca con il fuoco.

Da Il Foglio, 9 settembre 2017

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