 
                    Nonni e bisnonni di Milei furono tra i tanti italiani che ininterrottamente, dalla fine dell’Ottocento alla fine degli anni Cinquanta, emigrarono in Argentina. Andavano a cercare una vita migliore in un paese che nel secondo decennio del Novecento aveva ancora il Pil pro capite superiore a quello degli Usa. Il declino è iniziato dopo la Seconda guerra mondiale ma si è aggravato dalla metà degli anni Settanta: un’alternanza di dittature militari e presidenze populiste, la continuità di spese insostenibili, cattiva gestione di denaro pubblico e corruzione hanno fatto regredire l’Argentina al 58° posto del Prosperity Index (l’Italia è al 30°), costringendola a una instabilità economica ciclica, a una coazione a ripetere di iperinflazione, indebitamento, colpi di Stato e regimi che, da destra e sinistra, hanno soffocato a più riprese la libertà, l’economia, il potere di acquisto della sua popolazione.
Quando si deve fare un esempio di fallimento di Stato, l’Argentina è il primo che viene in mente: per cinque volte dal 1980 il debito è stato ristrutturato. Nel 2001, la dichiarazione di default si sovrappose al suono delle cacerolas nelle strade della capitale. Da allora, il ritorno del peronismo incarnato dalla famiglia Kirchner, con la debole parentesi del governo conservatore di Macri, ha portato il paese a un’inflazione al 133,5% e a una profonda grieta (frattura) sociale e politica.
In questa frattura, nel 2021 si è inserito Javier Milei, dirigente e professore di materie economiche che aveva iniziato a farsi riconoscere dal grande pubblico come opinionista televisivo. Con il suo partito La Libertad Avanza, prima ottiene un seggio in parlamento e poi vince le elezioni presidenziali del 2023. È un volto nuovo, ma soprattutto sono idee nuove. Senza nascondere che la sua “cura” sarebbe stata dolorosa, Milei ha mostrato agli argentini il lato pop del liberismo e ha detto loro, motosega alla mano, che l’unico modo per abbattere un’inflazione a tre cifre sarebbe stato tagliare, tagliare, tagliare: la spesa pubblica, le leggi inutili, la burocrazia ridondante, le regole soffocanti.
È stata una scommessa due volte unica: per aver fatto della teoria libertaria tutta intera un programma integrale e poi una pratica di governo; per averla resa in qualche modo comprensibile e desiderabile. Le idee liberali sono generalmente poco intuitive, ma a renderle difficilmente praticabili è il fatto che richiedono un sforzo costoso per sottrazione: di spesa, di rendite, di sussidi, di regole, di posti di lavoro. È il motivo per cui la spending review di norma è poco più che un esercizio accademico.
Con giubbetto di pelle e vocabolario sboccato (ma in fondo non più del nostro Vaffa con cui i Cinque Stelle divennero partito di governo), Milei ha invece sfidato i crismi della presentabilità. Il suo linguaggio, fisico prima che verbale, ha parlato al popolo molto più di quanto non fosse prevedibile, convincendolo di messaggi e teorie che fino a quel momento erano rimasti nelle discussioni da club.
Non si tratta di populismo, ma del suo contrario: una sfida rock al populismo salottiero, quello che, dai Peron ai Kirchner, non ha fatto altro che distribuire per decenni brioches al popolo argentino.
Nei due anni di presidenza Milei, l’inflazione, in media d’anno, è passata dal 133,5% al 41,3% e il paese è tornato alla crescita, con un tasso atteso per il 2025 del 5,5%. Milei però ha dovuto vedersela, oltre che con presunti scandali familiari, con le difficoltà del paese a rimettersi in sesto: la spinta propulsiva della crescita sembra essersi attenuata negli ultimi mesi; la scelta di difendere la moneta ha eroso le riserve della Banca centrale, che Milei aveva ereditato negative e che aveva ricostituito grazie al prestito da 20 miliardi di dollari del FMI; infine, ai primi segnali di difficoltà, risparmiatori e investitori – troppe volte scottati dal crollo della moneta – hanno cominciato a vendere pesos e comprare dollari.
Due anni di governo sono logoranti, ancora più per chi ha fatto dell’austerità un passaggio necessario per la ripresa economica e per chi non ha una maggioranza in Parlamento e deve ogni volta negoziarla. Per questo, la vittoria alle parlamentari di metà mandato è sorprendente e due volte rilevante.
Molti avrebbero scommesso che el loco non sarebbe stato preso sul serio. E invece le sue proposte e il suo folle modo di presentarle sembrano reggere il confronto sia con le idee più comuni (spesa pubblica e sussidi) sia con quanti, in giacca e cravatta, hanno da ridire sulla sua eccentricità. Sicuramente, una componente di questa affidabilità è la linea di credito appena aperta da Trump. Ma sarebbe ingiusto verso gli elettori argentini ridurre la vittoria del partito di Milei a un ricatto statunitense. Il consenso di cui gode la neo premio Nobel Maria Cristina Machado in Venezuela confermerebbe, invece, che il continente latinoamericano è attraversato da domande democratiche intense. E questo ci porta al secondo motivo di interesse. L’Argentina è un paese giovane. L’età mediana della popolazione è di 30-35 anni, quindici in meno che da noi. Lo stravagante Milei forse non avrebbe convinto una società imbolsita come la nostra, ma continua a convincere una società giovane come la loro, a cui – evidentemente e per fortuna – come il presidente si veste interessa meno della sostenibilità della spesa pubblica.