Meno sociologhese più autonomia

Dare più libertà agli istituti significa fare dello Stato non l'esecutore, ma il regolatore del sistema scolastico

19 Gennaio 2023

Tempi

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Politiche pubbliche

Il ministro Giuseppe Valditara non ha bisogno di consigli. Professore universitario, è stato capo dipartimento per la Formazione superiore e per la Ricerca del Miur e da anni è fra i pochi, a destra, che si dedicano a riannodare i fili di un pensiero, di una tradizione politica che vada oltre le contingenze del momento. Le polemiche in cui è entrato, in queste prime settimane del suo mandato, tradiscono precisamente il desiderio di segnare un punto sul piano dei valori. Parrebbero idee passatiste, di cui s’incaricheranno di fare giustizia potenti venti contrari. In realtà si appoggiano sul buon senso di chi sa che “imparare” è un verbo che si declina per luoghi e persone. Il mondo e la storia sono pieni di studenti brillanti che hanno appreso ciò che dovevano, a dispetto di un ambiente non dei più congeniali. 

Non esistono né sono mai esistiti sistemi scolastici “perfetti”. Il nostro ha un vizio di fondo. La politica guarda la scuola dal punto di vista dei docenti e del personale non docente. La spesa pubblica sostiene “risorse”, ovvero persone, che sono indispensabili per l’erogazione del servizio ma che di per sé non ne garantiscono la qualità. Quando la scuola entra nel dibattito pubblico, di solito si riaffacciano anche parole come “stabilizzazione”, “concorsi”, “assunzioni”. 

Il nome degli affluenti del Po 
Inoltre, i contratti collettivi nazionali tendono a rendere difficile la valorizzazione del buon lavoro del singolo docente: che andrebbe riscontrato, letteralmente, a lezione, quindi nel modo più granulare e decentrato possibile. L’ultimo tentativo di andare in quella direzione è stato il “docente esperto”, categoria proposta in uno schema alquanto cervellotico dal governo Draghi. 

Tutto questo mentre media, tecnologie e cultura portano una sfida sempre più serrata alla scuola. Anche senza essere tecno-luddisti, bisogna riconoscere che vivere con il cellulare in mano tende a ridurre la soglia dell’attenzione di tutti, a maggior ragione di persone che si stanno “formando”. Il mercato del lavoro cambia e si modifica in modo sempre più incalzante. Di slogan siamo pieni: in epoca di “formazione permanente”, bisogna insegnare alle persone a imparare. Bellissimo, ma che cosa vuol dire? 

L’esecrato vecchio nozionismo aveva se non altro il pregio di farci entrare nella testa qualche data, il nome di tutti gli affluenti del Po, due o tre poesie. I metodi di ieri, per obsoleti che siano, non possono essere sostituiti dal dominio del “sociologhese” e dall’inflazione di voti e giudizi, che alimentano percezioni falsate del proprio valore da parte di studenti e famiglie. Non è sorprendente che la conseguenza sia l’accademizzazione di qualsiasi cosa: l’idea, cioè, che serva un passaggio universitario per appropriarsi di competenze che un tempo sarebbero state tranquillamente trasmesse a livello inferiore ovvero attraverso l’esperienza, il lavoro a bottega. 

Sistemi di governance obsoleti 
Una società nella quale bambini e giovani sono sempre di meno diventa così per paradosso la società più “infantilizzata” di sempre, nella quale l’ingresso nel mondo del lavoro è continuamente ritardato ma non per questo le competenze apprese sono sintonizzate sulle esigenze dei datori di lavoro. Mettere mano a qualsiasi riforma della scuola è, anche per questo, un ginepraio. La risposta da parte dei lavoratori è sempre un “no” compatto e inscalfibile. Studenti e famiglie si allineano, persuasi dai docenti del loro punto di vista. 

Ogni cambiamento viene raccontato come una minaccia alla “inclusività” e alla “universalità” del sistema scolastico. Il problema di fondo è che gli stessi meccanismi di governance del settore sono obsoleti. Questo lo testimonia anche la straordinaria offerta, privatistica e del tutto estranea al sistema, di proposte formative da cui siamo circondati. Corsi online, formazione promossa e sostenuta dalle stesse aziende, corsi professionali, “master” e “masterclass” esterni al circuito universitario. 

La stessa società che sembra indisponibile ad accettare qualsiasi modifica dello status quo della scuola è poi affamatissima di alternative. Sono molti i temi sui quali non c’è accordo fra gli economisti ma una delle pochissime cose sulle quali tendono a concordare è che un monopolio tende a ridurre l’offerta e ad aumentare i prezzi. Monopolio è sinonimo di inefficienza e comprensibilmente siamo tutti guardinghi, rispetto a monopoli veri o ipotetici. Però abbiamo consegnato la fornitura di due servizi così importanti per la nostra società – come sanità e istruzione – sostanzialmente al monopolio pubblico. 

La concorrenza, simmetricamente, non è soltanto una questione che riguardi il numero di imprese che possono provare a offrire un certo bene o servizio. I suoi benefici più rilevanti sono dinamici: chi entra in un mercato, per guadagnarsi un posto al sole, proverà a sviluppare nuovi metodi produttivi per ridurre costi e dunque prezzi, oppure cercherà di innovare fornendo beni o servizi nuovi, i migliori dei quali rimpiazzeranno i vecchi. La concorrenza è il regno dell’imprenditorialità, di quella capacità rabdomantica di intuire le domande del nostro prossimo (del nostro “consumatore”) che è lievito della straordinaria capacità di innovazione delle nostre società. Nel grande come nel piccolo. Sulla frontiera delle nuove tecnologie come nei nuovi ristoranti che aprono (e chiudono) ogni giorno nelle nostre città. 

Chi può sperimentare
I cambiamenti che attraversano la società richiedono risposte nuove, in ambito educativo. Come si fa ad apprendere nel mondo dei tablet e dei social? Come si fa a insegnare? Come si contempera l’esigenza di afferrare l’attenzione del discente per il tempo che c’è, e quella di fargliela sviluppare un po’ di più? 

Oggi a queste domande dà risposta al massimo la creatività dei docenti che fanno, con criterio e passione, il loro lavoro. Ma nella scuola primaria e secondaria gli unici a potersi permettere davvero di sperimentare sono quelli che stanno al di fuori del perimetro del servizio pubblico. Le famiglie abbienti oggi hanno una buona offerta di scuole internazionali e istituti privati di eccellenza, nei quali possono mandare i loro figli a fronte di un investimento cospicuo nel loro capitale umano. 

Buonsenso, concorrenza e rigore 
Le scuole statali arrancano. Come ha scritto Giovanni Cominelli in un “Focus” dell’Istituto Bruno Leoni, l’autonomia scolastica è in Italia «l’altra faccia del centralismo burocratico». Gli istituti non hanno capacità di autogovernarsi, non sono retti da un board che rappresenti gli interessi del territorio, non hanno dirigenti scolastici che possano discriminare fra diversi docenti, anche a livello di salario. Ogni riforma e ogni cambiamento è sempre gerarchicamente ordinato, plana da Roma sulle teste di docenti e studenti. Bisognerebbe avere la forza di invertire il meccanismo. 

Dare autonomia autentica agli istituti significa fare dello Stato non il progettista e l’esecutore, ma il regolatore e il garante del sistema scolastico. Significa anche promuovere, con strumenti come un buono-scuola appoggiato a una quota capitaria per studente, una concorrenza più ampia, non per un feticcio “liberista” ma perché nella concorrenza si apprende: diversi approcci, diversi metodi, diverse politiche di reclutamento possono servire ad ammodernare la scuola non sulla base di “progetti” usciti dalla scrivania di qualche burocrate, ma grazie all’esperienza accumulata. 

L’Italia è un paese strano, che sulla carta dovrebbe essere sepolto da decenni sotto i suoi problemi. Se siamo rimasti a galla, è stato grazie a imprenditori e maestranze straordinarie. Il capitale umano è il nostro salvagente, prima ancora del nostro futuro. Buonsenso, concorrenza e rigore nella scuola possono dare più spinta al paese, in termini di Pil futuro, di qualsiasi riforma economica. Purtroppo sono destinate a incontrare una resistenza corporativa ancora più forte.

da Tempi, gennaio 2023

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