Mario Vargas Llosa: la libertà è sempre umile, non rivoluzionaria

Il premio Nobel peruviano critica il disprezzo per la politica e il comportamento della Cina sulla pandemia. «Chi sogna il paradiso in terra vuole in realtà il potere assoluto»

25 Settembre 2020

Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

«Il lockdown per me è stato una meraviglia. Leggevo per dieci ore filate al giorno, senza interruzioni. Ho potuto rileggere cose che da tempo desideravo riprendere in mano…». Al sentirsi chiedere che cosa abbia riletto, Mario Vargas Llosa sorride. «Madame Bovary. Ho letto un’altra volta Madame Bovary e come sempre ne sono rimasto accecato. Flaubert è il primo romanziere moderno. Ha insegnato a tutti noi che il narratore è il primo personaggio che qualsiasi scrittore si deve inventare».

Vargas Llosa ha trascorso i mesi della pandemia a Madrid. Non ha «mai avuto paura, nonostante l’età (84 anni, compiuti a marzo) mi confini nella categoria delle persone fragili». Questo, sul piano personale: sul piano politico, invece, il Nobel peruviano ha espresso preoccupazione per le sorti dell’economia e dei diritti civili con un manifesto, Que la pandemia no sea un pretexto para el autoritarismo, promosso dalla Fundación Internacional para la Libertad (Fil). Sono temi a cui Vargas Llosa si dedica da anni, come testimonia Sciabole e Utopie, una raccolta dei suoi scritti politici uscita per Liberilibri. «Mi spaventa il disprezzo diffuso per la politica. Le persone migliori se ne tengono alla larga: la considerano una cosa sporca. È così in Perù, in Spagna, sono sicuro sia così anche in Italia. Ma se di politica si occupano solo i peggiori, avremo pessime scelte politiche. In questo modo, il populismo diventa una profezia che si autoavvera».

Nella pandemia, molti hanno ammirato la capacità di reazione del governo cinese…
«La Cina ha grandi responsabilità. Ha occultato fatti e informazioni che avrebbero consentito agli altri Paesi di prepararsi per tempo. Questo è stato possibile per la natura dello Stato cinese».

Quando le cose hanno preso il verso sbagliato?
«Tutt’oggi non sappiamo che cosa sia avvenuto di preciso, in Cina, ma sappiamo che alcuni scienziati avevano scoperto l’esistenza e la pericolosità di questo nuovo coronavirus. Che ha fatto il governo? Li ha costretti al silenzio, facendo perdere a tutto il mondo settimane, se non mesi. Mi ha ricordato quel documentario su Chernobyl, dal quale emergeva che Gorbaciov tentò di comprendere davvero ciò che era avvenuto. Ma non riuscì a identificare cause e responsabilità. Non c’era modo: all’interno del sistema tutti mentivano. A differenza che in un’economia di mercato, in una società burocratica non esistono indicatori di successo che prescindano dal racconto dei protagonisti. I funzionari debbono difendere la propria posizione dalla volontà arbitraria di chi sta sopra di loro e mentono. Piano piano, la menzogna diventa regime».

La Cina comunista, insomma, le sembra tutto fuorché un modello…
«Una volta di più dovremmo avere capito l’importanza della libertà. E specialmente che la libertà o è “integrale” o non funziona: o la si può esercitare, simultaneamente, in tutti i campi, o non esiste. Senza Stato di diritto è impossibile avere davvero un’economia di mercato e, quando le istituzioni fondamentali dell’economia di mercato (proprietà privata, libertà contrattuale) vengono meno, non può esserci davvero Stato di diritto. La libertà è una sola».

Oggi, questo liberalismo appare come una sorta d’utopia…
«Al contrario. Una cosa che il liberalismo ti insegna è a essere realista. In questo senso: a capire che gli schemi intellettuali, per quanto possano sembrare perfetti, devono sempre adattarsi alle circostanze particolari, che tendono a essere più complesse di quanto persino i pensatori più acuti possano immaginare».

In politica, al contrario che nei romanzi, l’originalità è un difetto?
«Sì. Più che la creatività, in politica, serve umiltà. Pensiamo ad Adam Smith. Smith aveva chiarissimo ciò di cui i Paesi hanno bisogno per progredire. La concorrenza è essenziale al progresso economico, e pure a quello civile e politico. Ma Smith sapeva anche che le idee della concorrenza devono attecchire, nella società, diventare parte della cultura comune, per produrre effetti duraturi. Sono le riforme che devono adattarsi allo stato delle cose, e non dobbiamo invece presumere che le cose si adattino istantaneamente ai desideri dei riformatori».

Che cosa è cambiato dai tempi di Smith?
«Noi abbiamo un grande vantaggio. Per la prima volta, oggi sappiamo che cosa è necessario fare affinché un Paese progredisca. Per la prima volta nella storia un Paese può scegliere, se essere ricco o essere povero, attraverso le istituzioni che si dà. È un’aberrazione che in tanti continuino a scegliere la povertà».

È la meritocrazia che rende accettabili le diseguaglianze?
«Se le persone hanno la percezione che in linea di massima agli alti guadagni corrispondono meriti e voglia di lavorare, le accettano. Questo è il modello americano, o almeno lo era prima di Trump. È un modello che ha attirato, non a caso, milioni di persone da tutto il mondo: desideravano una chance per potere migliorare la propria posizione e la trovavano negli Stati Uniti».

L’anno prossimo ricorrono i quarant’anni dalla pubblicazione di un suo grande romanzo, «La guerra della fine del mondo». Cosa ci insegna la storia dei rivoltosi di Canudos, pensando anche ai populismi contemporanei?
«Il caso di Canudos è emblematico di tanti altri, in America Latina o in Africa. Era una comunità così isolata e lontana dal resto del Paese, da avere dei sentimenti, un’identità totalmente diversi. I campesinos di Canudos erano influenzati da preti fanatici, che li avevano messi in guardia contro il potere dei massoni. Si erano convinti che il giorno in cui in Brasile si fosse instaurata la Repubblica, a prendere il potere sarebbe stato, letteralmente, il diavolo. Sembra una follia ma per quella gente così umile, così ignorante, senza contatti col resto del mondo, non lo era affatto».

Erano lontani dall’élite politica, ma anche viceversa.
«Il Brasile colto, quello moderno, non li comprende per nulla. Interpreta la loro ribellione come un’operazione dell’Inghilterra e dei monarchici per sabotare la Repubblica. Euclides da Cunha, che pure partecipa di persona alla quarta spedizione contro i rivoltosi, pensa che siano un movimento politico. L’elemento paradossale della storia è proprio questo: che è la parte civilizzata del Paese che adotta una visione cospiratoria, i campesinos le sono così incomprensibili che pensa di avere a che fare con un complotto internazionale…».

In qualche modo questa incomunicabilità si ripresenta anche nelle discussioni contemporanee, nella contrapposizione fra popolo e élite, nel riproporsi dei nazionalismi?
«Il nazionalismo si basa su un fatto naturale. Le persone si sentono meglio in mezzo ad altre che somigliano a loro. Ma su questa base si costruisce il nazionalismo politico, che è un anacronismo…».

Eppure i nazionalismi sono sempre alla ribalta.
«L’Unione Europea è uno strumento per dissolvere, poco a poco, in un modo molto prudente, le nazioni tradizionali. Grazie alla globalizzazione, i Paesi sono sempre più dipendenti l’uno dall’altro. Che senso ha, ai nostri giorni, esacerbare le identità nazionali? Serve solo alla costruzione del consenso. In Russia il nazionalismo ha sostituito il socialismo reale. In Bielorussia è il marchio di una dittatura fuori dal tempo. Forse c’entra anche la fine del comunismo…».

Perché?
«Il comunismo ha perso attrattiva come formula di giustificazione della dittatura. È un modello la Corea del Nord? Il Venezuela? Oggi sappiamo come si fa a uscire dalla povertà: il socialismo non è un’opzione, non c’è sviluppo senza economia di mercato. È drammatico il caso dei Paesi di quello che un tempo si chiamava Terzo Mondo, dove con strepitoso cinismo piccole oligarchie sfruttano la gran maggioranza della popolazione, in cambio di che? Di nazionalismo. Ripagano lo sfruttamento con un sentimento di identità. Questo è avvenuto tante volte, anche in America Latina».

Perché gli intellettuali restano sempre affezionati, invece, a ipotesi rivoluzionarie?
«Gli intellettuali sognano sempre il paradiso terrestre. Non si può aspirare all’assoluta perfezione dell’opera d’arte, nei fatti sociali ed economici. Quando lo si fa, si finisce per esigere un potere assoluto, con l’obiettivo di rifare gli uomini a immagine e somiglianza di un ideale. È così che si crea non il paradiso ma l’inferno in terra. Gli intellettuali non accettano la mediocrità, ma in politica la mediocrità è la vera civiltà».

Vent’anni fa lei ha corso per la presidenza del Perù, provando a passare dalla predicazione alla pratica liberale. Cosa rimane di quell’esperimento?
«Per me è stata un’esperienza affascinante. Non ho mai avuto ambizioni politiche. Il mio sogno, sin da bambino, era diventare uno scrittore. Mi trovai a capo di un movimento popolare perché mi ero opposto alla nazionalizzazione delle banche e delle assicurazioni proposta dal presidente Alan García. Quella legge, la fermammo. A un certo punto mi illusi, mi feci prendere dal sogno di una candidatura liberale alla presidenza. Facemmo tanti errori ma alcune idee misero radici, non si può dire che sia stato un fallimento completo».

In «Sciabole e Utopie» ci sono anche suoi scritti giovanili, con idee che ha molto rivisto nel tempo. Eppure, a differenza di altri, è sempre attentissimo, per così dire, a lasciare traccia del proprio passato.
«Credo, come dice Karl Popper, che si proceda per tentativi ed errori. Si scrive, si fanno ipotesi e, inevitabilmente, si sbaglia. L’importante è sapersi correggere».

Tutti sanno che lo scrittore più caro a Mario Vargas Llosa è Flaubert. Ma chi è il suo saggista preferito?
«Isaiah Berlin. Ho per Berlin un’ammirazione straordinaria. Vedo che il “Times Literary Supplement” lo attacca, dicendo che è superficiale. Fossero tutti superficiali come Berlin…».

Lei ha raccontato una cena con Margaret Thatcher durante la quale alcuni intellettuali di prima fila la sottoposero a una sorta di esame. Berlin era fra questi.
«Sì, Berlin era seduto di fianco alla Thatcher. Lei aveva questo modo un po’ imperioso di rivolgersi a tutti, ma nei confronti di Berlin era quasi deferente. All’esame lei se la cavò meravigliosamente. Fijate si no es triste: tutti i primi ministri inglesi ricevono una laurea ad honorem dalla loro università, ma Oxford si rifiutò di conferirla alla Thatcher. Fu orribile: era una ragazza di mezzi modesti che fece la carriera universitaria grazie a borse di studio. Vivevo a Londra all’epoca, l’ho visto con i miei occhi: l’Inghilterra si stava spegnendo. E questa donna, combattendo contro tutto e tutti, la trasformò nel Paese più dinamico d’Europa».

Qualcuno ha scritto: solo due scrittori preferiscono la Thatcher a Fidel Castro, Philip Larkin e Mario Vargas Llosa.
«Non sapevo di Larkin ma mi fa piacere. È un grandissimo poeta».

dal Corriere della Sera, 25 settembre 2020

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