Maggioritario fisso

Il proporzionale funziona in paesi con istituzioni che funzionano, quindi non in Italia

23 Dicembre 2016

Il Foglio

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Ripartire dal Mattarellum per finire dove? Se Matteo Renzi è serio nella sua svolta a favore di un sistema prevalentemente maggioritario a turno unico, dovrà scontrarsi contro un fronte neo propozionalista più forte ogni giorno che passa. L’idea di tornare al sistema che ha retto l’Italia dal ’48 al ’92 parrebbe avere una sua ragionevolezza. Il maggioritario funziona, ci viene spiegato, con uno schema bipolare: destra/sinistra, berlusconismo/antiberlusconismo. Adesso che i poli sarebbero tre (ipotizzando che il centrodestra esista ancora), bisogna adottare una formula diversa. Il proporzionale ha il pregio di consentire alleanze e accordi lontano dal trambusto dell’arena elettorale. I governi si fanno in Parlamento, trovando una quadra fra posizioni diverse, smussando le asperità di un dibattito concitato. Il proporzionale sarebbe un balsamo per l’antipolitica, perché restituirebbe rappresentatività alle istituzioni: chi vince non piglia tutto, ma sensibilità e idee diverse valgono per quanto pesano nel paese.

In prosa, il punto vero è evitare l’arrivo dei grillini al potere. Col proporzionale il cinquantuno percento va soltanto a chi ce l’ha, fra gli elettori: e i Cinquestelle sono ancora lontani. Per questa ragione, il vagheggiato ritorno alla prima Repubblica non è forte soltanto della contingenza: siccome i partiti faticano a trovare un accordo, è probabile si converga sulla legge elettorale che c’è, quella uscita dalla Corte costituzionale (proporzionale con sbarramento all’8 per cento). Ma a suo favore milita l’apertura di persone ragionevoli, convinte dopotutto che sia l’uovo di colombo per evitare uno scivolamento verso gli estremismi. Germania, Finlandia, Svizzera, per non citare che i primi paesi che vengono in mente, hanno una qualche variante di sistema proporzionale e non sono governati peggio di noi. C’è una vecchia idea, ben radicata nel nostro ceto dirigente, anche come reazione all’esperienza berlusconiana. Nella legislatura del 2001 ci si provò con i “volenterosi”. Mario Monti ha scritto articoli su articoli proponendo una grande coalizione all’italiana per fare le riforme: e gli è toccato di passare dalla teoria alla pratica. Le persone ragionevoli sono una piccola minoranza, l’eterna enclave dei partitini laici, stanno tanto di qua tanto di là perché una bella minestrina è di destra, il minestrone di sinistra, le relazioni e le attitudini prevalgono sempre sulle convinzioni. Non bisognerebbe farli lavorare assieme? Un giorno, chi ripenserà alla storia della seconda repubblica dovrà ahimè fare i conti coi danni delle persone ragionevoli. Per come sono andate le cose, forse non è stata una bella pensata cercare continuamente convergenze al centro, anziché costruire consenso nei rispettivi partiti. L’esperienza della grande coalizione montiana qualcosa dovrebbe averlo insegnato: non è vero che, sedendosi al tavolo tutti assieme, i partiti lasciano a casa il proprio potere di veto. Al contrario, passata la fase d’emergenza nella quale è l’andamento dei mercati a costringere alle riforme, ognuno protegge come può le proprie constituency, ragionando sulla prova elettorale che verrà. Le spinte in senso opposto si annullano vicendevolmente, non compongono una sintesi riformista “virtuosa”.

C’è una certa correlazione fra sistemi proporzionali e predominio della politica “transazionale”, fondata sulla spesa per trasferimenti. La ragione è ovvia: una pluralità di gruppi politici organizzati non riflette soltanto un ampio spettro di idee, sensibilità e credenze, ma soprattutto la capacità di organizzazione, per l’appunto, di quei gruppi. Il fatto che le coalizioni di governo siano decise in parlamento fa sì che siano più instabili: questa instabilità riflette la maggiore libertà negoziale dei diversi partiti, che possono disfare accordi meno favorevoli senza pagare il dazio dell’indignazione degli elettori. Il proporzionale, per lo stesso motivo, erode il potere discrezionale del governo. Il che è una benedizione nei Paesi con istituzioni che tutto sommato garantiscono prosperità e benessere: tipo la Svizzera. Da noi però le istituzioni proprio benissimo non funzionano: il proporzionale potrebbe toglierci ogni dubbio sull’irriformabilità italiana.

Il problema è che le persone ragionevoli immaginano che un individuo sia ragionevole ventiquattro ore al giorno, oppure estremista per sessanta minuti ogni ora. La possibilità di cucire alleanze in parlamento non sarebbe limitata ai moderati: anche gli estremisti ce l’avrebbero. Tutt’oggi è inimmaginabile per forze nazionaliste e di destra, come la Lega o Fratelli d’Italia, presentarsi al giudizio degli elettori a braccetto con quel che resta della sinistra radicale, o con i Cinque stelle, I loro elettori guardano, come tutti, prima alla compagnia che ai programmi: e li punirebbero facendo mancare il proprio voto, quali che siano i punti di convergenza fra Salvini e Di Battista. Ma che succede se, presentatisi ognuno per conto suo, quei partiti dovessero essere in grado di mettere assieme una maggioranza parlamentare? Non è che gli accordi si possano fare solo fra riformisti, in vista, per dire, della legalizzazione di Uber. Si possono costruire anche fra estremisti pensando, ad esempio, all’uscita dall’euro. La voglia di grande coalizione, il neo proporzionalismo paternalista, tradisce uno scetticismo profondo verso la politica, o perlomeno la politica prodotta da democrazie esagitate. L’idea di lotta politica che sta prendendo piede fra le cosiddette élites è improvvisare giochi di prestigio perché gli elettori possano fare la cosa giusta senza accorgersene. Quando gli elettori se ne accorgono, però, fanno con più gusto la cosa sbagliata.

Da Il Foglio, 23 dicembre 2016

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