Nobel perla Pace alla leader anti Maduro: "Lo dedico a Donald". Così il premio all'ingegnera dissidente certifica che in Venezuela è dittatura
Al telefono con il segretario del comitato Nobel che le preannunciava il riconoscimento del premio per la pace, per prima cosa María Corina Machado – la voce rotta dall’emozione – ha dedicato il Nobel all’intero movimento. Il suo Vente Venezuela (Vieni qui, Venezuela) è l’onda politica che ha travolto di speranza milioni di venezuelani, convincendoli di potersi opporre alla dittatura di Chavez ieri e Maduro oggi.
Grazie alla «sua lotta per una transizione giusta e pacifica dalla dittatura alla democrazia», come recitano le motivazioni a Oslo, non solo viene riconosciuto a lei l’impegno per la pace, ma viene anche ammesso in maniera adamantina ciò che molte volte è stato frutto di distinguo: in Venezuela c’è una dittatura contraria al senso di pace.
Machado ha avuto solo da perdere dall’attività politica. Proveniente da una famiglia benestante di Caracas, una volta presa la laurea in ingegneria industriale e dato al mondo tre figli, crea una fondazione all’inizio degli anni Novanta per aiutare i bambini di strada della sua città. E’ la prima manifestazione del suo impegno civico, che proseguirà negli anni del chavismo con Súmate (Unisciti), una associazione fondata nel 2002 per difendere la correttezza e la trasparenza delle procedure elettorali.
Nel 2003, Súmate si è intestata una coraggiosa campagna di voto per destituire Chavez, il cui risultato – a favore del presidente in carica – è stato messo in dubbio da alcuni osservatori internazionali. L’impegno di Súmate è valso alla Machado un definitivo ingaggio politico. In 25 anni di lotta per elezioni libere, l’ingegnere è stata tallonata dal regime fino a diventare la nemica numero uno di Maduro.
Nel 2023, le primarie dell’opposizione per le presidenziali 2024 la rendono un punto di riferimento per milioni di persone. Con un sorriso aperto e un carisma fatto di eleganza e coraggio, Machado riesce a convincere i venezuelani che il loro voto può ancora contare. La dittatura inizia a temerla davvero e la estromette dalle elezioni, dopo la vittoria come candidata di opposizione.
Da quel momento, perde la vita privata, la libertà, il contatto degli affetti ma si mette alla testa delle proteste venezuelane contro la dittatura, in compagnia di altri attivisti come Leopoldo Lopez e Antonio Ledezma. Le denunce contro l’illegittimità della presidenza di Maduro, l’organizzazione di manifestazioni e proteste pacifiche – un punto, quello della non violenza, su cui ha sempre insistito – sono il modo con cui Machado ha ridato ai venezuelani la forza di non arrendersi, quando tutti davano per persa ogni possibilità di ripresa economica e democratica del Paese.
Ancor più, sono il modo con cui ha messo il suo Paese sotto lo sguardo del mondo, anche di quella larga parte di mondo – la nostra – così accecata dallo spauracchio del neoliberismo da aver chiuso entrambi gli occhi davanti al chavismo e non aver visto la tragedia che si andava consumando in Venezuela. In dieci anni, 8 milioni di persone hanno lasciato il Paese, in cerca di libertà e lavoro, 2 mila persone, anche giovanissime e minorenni, sono state rese prigioniere politiche, accusate di terrorismo solo per chiedere di poter votare liberamente. L’82% dei venezuelani – stime dell’Unione europea – soffre di insicurezza alimentare; 20,1 su 28 milioni e mezzo di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria. La criminalità, sia piccola che legata al narcotraffico, spadroneggia in un Paese abbandonato dalle istituzioni. In meno di 20 anni, il Venezuela ha perso 20 posizioni nella classifica del Global Peace Index, che tiene ampiamente conto degli indici di criminalità e di sicurezza.
Il riconoscimento del premio Nobel a Machado – dopo i premi Sakharov a lei, a Antonio Ledezma e a Leopoldo Lopez – è il definitivo discredito della dittatura socialista venezuelana, che per anni ha flirtato sia con le autocrazie contemporanee, dalla Russia all’Iran, sia con l’intellighenzia dell’Occidente, indignata dai suoi salotti per le angherie del capitalismo.
Secondo la Casa Bianca, col premio a Machado il comitato per il Nobel ha dimostrato di anteporre la politica alla pace. Le due cose, in realtà, vanno insieme, se almeno si vuol dare alla politica una credibilità che spesso, è vero, non merita. Ma a stupirsi per questo premio potrebbero essere più le nostre sinistre che un Trump in fondo solo corrucciato di non averlo ancora ricevuto. Tra Machado e il presidente Usa c’è stata una telefonata, dopo che lei sui social ha dedicato il Nobel «al popolo sofferente del Venezuela» ma anche «al presidente Trump per il suo decisivo sostegno alla nostra causa».
Un anno fa, María Corina Machado riceveva in Italia il ben più modesto premio Bruno Leoni. Collegata per motivi di sicurezza da un luogo ignoto, aveva sostenuto che Maduro fosse ormai isolato, sia internamente che a livello internazionale. Sembrava forse un eccesso di ottimismo, almeno a un pubblico abituato a sguardi indulgenti verso i modelli magari sì autoritari, ma comunque alternativi al tanto odiato libero mercato. Il Nobel per la pace è invece la dimostrazione che aveva ragione lei e che, almeno per un giorno, anche la nostra parte di mondo si è ricordata come la pace e la prosperità siano entrambe espressione di libertà.