Libertà di commercio chiama libertà di lettura e non solo. Il caso argentino

Ragionamenti attorno a una chicca protezionista

4 Febbraio 2016

Il Foglio

Serena Sileoni

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Ogni giorno il Foglio prova a arginare i profluvi intellò contro il capitalismo, la globalizzazione, l’imperialismo economico (statunitense, eccetto Barack Obama si intende), contro quelli è #tuttacolpadelliberismo, rimarcando invece come il modello capitalistico, la libertà economica delle persone siano un aspetto inscindibile della libertà umana a cui nessuno di noi sarebbe disposto a rinunciare. Un discorso non semplice da opporre al buonismo imperante di quelli che esistono i diritti civili e solo dopo i rapporti economici, perché è un discorso che chiede molta più ragione che emotività.

Nei discorsi difficili, gli esempi sono utili. L’Argentina ne offre uno sul fatto che la quintessenza della libertà di espressione è la medesima della libertà di intrapresa economica.

Nel 2012, l’improvvido governo di Cristina Kirchner, mentre vietava la conversione di pesos in dollari verso i quali gli argentini stavano fuggendo a causa dell’iperinflazione (la stessa cura che vorrebbero i no euro e i nostalgici della moneta nazionale, tanto che Grillo nel 2011 scriveva “Facciamo come l’Argentina!!!”), tra le tante misure protezionistiche approvava un regolamento che, di fatto, impediva l’importazione di pubblicazioni stampate all’estero. Ridicola o urticante la motivazione,giudicate voi: il governo era intenzionato a controllare la quantità di piombo nell’inchiostro degli stampati importati, per proteggere la salute dei lettori all’atto dello sfogliare col dito le pagine. Per fare ciò, l’acquisto di un libro dall’estero doveva passare per le forche di certificazioni e controlli kafkiani per poi essere ritirato alla dogana aeroportuale. Cioè, niente consegna a domicilio.

E’ evidente che l’obiettivo del governo argentino non aveva nulla a che vedere con la salute, e molto a che vedere col mercantilismo. Chi ha elogiato e magari continua a elogiare -insieme agli altri neosocialismi latinoamericani- il mix di socialismo, protezionismo e autarchia dell’ era Kirchner come orgogliosa e vincente risposta al capitalismo e all’odiato neoliberismo -dal premio Nobel americano Paul Krugman (“Una storia di successo”) alla politica socialista francese Ségolène Royal (“Un paese che ha saputo riprendere in mano il proprio destino dopo che i dogmi neoliberali lo avevano così tanto danneggiato”) al leader della sinistra italiana Nichi Vendola (“Piuttosto che inchinarci agli dèi pagani del liberismo, impariamo da quello che hanno fatto il Brasile o l’Argentina”) -dovrebbe iniziare a meditare sul fatto che difendere il mercato nazionale da quelli stranieri non vuol dire solo aumentare i dazi o sussidiare le proprie imprese.

Se fosse solo questo, sarebbe più comprensibile, a prescindere dalla correttezza, sostenere che ci siano interessi economici nazionali superiori da difendere. Quello su cui dovrebbero meditare, invece, è che impedire l’importazione di pubblicazioni stampate all’estero è sì una misura economica, ma è una misura economica che ricade anche sulla libertà fondamentale di espressione. Vuol dire infatti limitare la circolazione delle idee, condizionare la cultura, deprimere quel pluralismo culturale che proprio l’intellighenzia di sinistra, tanto spaventata dal “neoliberismo” e simpatizzante per le democrazie latinoamericane, invoca contro l’imperialismo capitalista.

Il nuovo governo di Mauricio Macri è ora intenzionato a eliminare il divieto. Chissà se su questo ha meditato il grande scrittore Sepulveda, il quale in un’intervista al Manifesto del 31 dicembre scorso ha amaramente dichiarato che Macri “ha vinto le elezioni con un discorso distruttivo, teso a negare tutte le conquiste realizzate dal governo precedente e a instaurare un governo neoliberista sul modello cileno”.

Da Il Foglio, 12 gennaio 2016

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