Lettura senza sconti

La “legge Levi” già non funziona: meno librerie e libri più costosi. Peggiorarla è davvero suicida

7 Febbraio 2020

Il Foglio

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Vietare gli sconti farà leggere di più? Il buon senso porterebbe a dire di no: se non sappiamo dire quanti libri sono stati venduti proprio grazie agli sconti, sappiamo però che abbassare il prezzo è uno dei modi più semplici e tradizionali di aumentare le vendite. Nella legge per la “promozione e il sostegno alla lettura” appena approvata in Parlamento, tra altre disposizioni di programmazione e di natura fiscale, viene introdotto di fatto il divieto di sconti sui libri: d’ora in poi, sul prezzo di copertina non si potranno fare sconti superiori al 5 per cento. Un libro da 10 euro non potrà essere acquistato a meno di 9,50; uno di 15, a non meno 14,25; uno di 20, a non meno di 19.

La prima notizia sta nelle modalità di votazione. Contro questa legge non si è espresso nessun voto contrario, né alla Camera (dove vi sono stati zero contrari e 61 astenuti), né in Senato, dove tutti i voti sono stati favorevoli. Poiché il divieto di sconti penalizza soprattutto i ceti sociali a basso reddito, è forse vero che c’è uno scollamento totale tra il mondo di chi governa e quello di chi è governato.

I fautori della norma invocano normalmente due argomenti. Il primo riguarda l’esigenza di promuovere la lettura attraverso la protezione delle piccole librerie. Si tratta di una tesi del tutto evanescente. Intanto perché il limite varrà per tutti, ed è probabile che i più penalizzati siano gli operatori che più faticano a stare nel mercato, non chi ha quote crescenti di mercato. Se le politiche di sconto fossero l’elemento determinante, infatti, non si capirebbe perché gli acquisti online di libri sono cresciuti dal 3,5 per cento del 2007 al 26,7 del 2019, ossia quando già c’era da otto anni il limite al 15 per cento. La verità è che le piattaforme online consentono di trovare – a proposito di promozione della lettura e pluralismo culturale! – tutto e sempre, con servizi di consegna straordinariamente competitivi. Ne sanno qualcosa quanti vivono non vicino a Montecitorio, ma nelle aree periferiche del paese.

Un secondo e più sottile argomento vuole invece che il divieto di sconti abbia come effetto quello di indurre gli editori a mantenere prezzi di copertina relativamente bassi. Senza alcun vincolo, si dice, alzerebbero i prezzi, in modo da consentire ai rivenditori di usare sconti apparentemente clamorosi per gabbare i clienti. A nostra conoscenza non esiste evidenza solida su questo aspetto, ma sappiamo qualcosa su vendite e ricavi. Tra il 2011 e il 2019 il mercato è sceso da 109,0 a 100,2 milioni di copie (-8,1 per cento), mentre il fatturato è salito da 1,432 a 1,493 miliardi (+4,3 per cento). Significa che il prezzo medio di vendita dei volumi è salito da 13,1 euro a 14,9 euro (+13,4 per cento, quasi il doppio dell’indice dei prezzi al consumo). Questo non ha fermato l’emorragia delle piccole librerie: tra il 2012 e il 2019 ne abbiamo perse circa 245 su 3.544. La “legge Levi”, insomma, non ha funzionato: abbiamo meno librerie e volumi più costosi. Per questo, forse, si è pensato che il limite del 15 per cento non bastava: di fronte all’inefficacia di quella norma, si è scelto di renderla più aggressiva.

Leggere e comprare libri (che pure sono due cose diverse) è senz’altro fondamentale per sé ma anche per il livello generale di consapevolezza, informazione e istruzione di una società. Tuttavia, pensare che basti vietare gli sconti per promuovere la lettura è, se non ipocrita, quanto meno ingenuo. Se fosse così, non dovremmo avere libertà di prezzo per nessun prodotto culturale, e forse anche per i beni di prima necessità. E invece leggere, informarsi, acculturarsi sono attività che convivono con molte altre, anche nuove, attività. Il concorrente delle librerie non si chiama Amazon e affini, che peraltro funzionano anche da marketplace per editori e librerie indipendenti, ma sono gli smartphone. Oggi leggiamo sicuramente molto più di quanto non facessero i nostri avi, non fosse altro che, nel 1951, il 12,9 per cento della popolazione non sapeva né leggere né scrivere, all’ultimo censimento (2011), l’1,1 per cento. Possiamo fare molto per perorare la causa della lettura, come ha dichiarato il ministro Dario Franceschini commentando con soddisfazione la legge appena approvata, ma tra quel molto è difficile immaginare che ci sia il divieto di sconto sul prezzo di copertina.

Il vero capolavoro, comunque, è quello di aver imposto per legge una condotta che, se adottata privatamente, sarebbe stata probabilmente sanzionata dall’Antitrust. In principio gli accordi verticali non sono preoccupanti, ma lo diventano nel momento in cui si tratta di una pratica generalizzata, in un mercato che a monte (l’editoria) è più concentrato che a valle (le librerie), e dove quindi favoriscono pratiche collusive esplicite o tacite. Comunque la si giri, il tetto del 15 per cento rappresentava un limite alla libera iniziativa e un danno per i lettori. Che oggi venga peggiorata con l’entusiastica adesione di tutte le forze politiche è segno dei tempi. Così muore la libertà: sotto scroscianti applausi (cit.).

da Il Foglio, 7 febbraio 2020

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