Si fa presto a dire economia. Per molti, parlare di economia significa riferirsi a qualcosa di indissolubilmente legato all’egoismo, al gretto materialismo, all’avidità, all’arricchimento dei pochi sui molti. Indice che una certa cultura — in realtà, diciamocelo, piuttosto trasversale — ha seminato piuttosto bene nel corso del tempo. Ha fatto passare quello che è un pregiudizio duro a morire, quello dell’economia come “scienza triste”, che inaridisce le fonti della moralità e corrompe i costumi.
Molto più concretamente e realisticamente, si parla di economia, parafrasando Sir Lionel Robbins, come quella scienza che studia l’utilizzo umano delle risorse scarse per fini alternativi. Ciò significa che l’uomo, è fin troppo banale ricordarlo, non può avere tutto ciò che desidera. Come diceva José Ortega y Gasset, l’uomo non viene al mondo semplicemente per vivere ma per vivere bene: questo è chiaro a chiunque abbia del buon senso.
Eppure, egli deve fare i conti con una onnipervasiva condizione di scarsità: di mezzi, di tempo, di risorse di cui può disporre, e così via. Al contempo, e come conseguenza di ciò, ogni scelta presuppone che si debba rinunciare a qualche cosa d’altro: ogni allocazione di risorse da parte di un individuo per un determinato progetto comporta la rinuncia di qualche altra strada che si sarebbe potuta percorrere. Detta in chiave popolare, mentre i desideri individuali possono espandersi all’infinito, non si può avere tutto.
L’economia, in buona sostanza, dovrebbe ricordarci questo. Eppure, troppo spesso sembra che invece essa possa darci tutto ciò che vogliamo. Ciò avviene per un fatto collegato a quanto detto fin qui. La credenza, cioè, che sia la politica, e dunque lo Stato, che stabilisca cosa deve essere prodotto oppure, tramite una regolamentazione capillare, cosa vada disincentivato.
Il punto è che così facendo la razionalità dell’economia, la quale si basa sulla decentralizzazione dei processi decisionali, viene meno. In un’economia non libera, e cioè diretta più o meno dalla politica, non sono i prezzi a determinare le scelte delle persone, quanto piuttosto l’interferenza dell’azione governativa a influenzare, in definitiva, l’allocazione delle risorse. «Eseguire atti di scambio», scriveva Ludwig von Mises, «è l’essenza dell’attività economica».
Ma che succede quando questi atti di scambio vengono ostacolati, quando non proprio impediti, dalla politica? L’economia non è più libera, ma, tutto sommato, mista — la nostra — oppure totalmente collettivizzata, e la storia è piena di questi esempi (del passato ma anche del presente).
Ne La società degli scambi. Un’introduzione all’etica e all’economia (IBL Libri), Cathleen Johnson, Robert Lusch e David Schmidtz offrono una guida per il lettore che voglia esplorare il significato, i presupposti e le implicazioni di una società basata sullo scambio. Seppure pensata per gli studenti — e ce ne fossero di testi del genere da proporre in un corso universitario di economia, filosofia o scienze politiche — il libro invita chiunque a fare i conti con la realtà, e non con il suo camuffamento ideologico.
Per esempio, gli autori ricordano come il commercio non possa essere scisso dalla cooperazione: cooperazione e commercio sono praticamente la stessa cosa. Attraverso lo scambio, infatti, ciascuno persegue i propri piani di vita, ma grazie agli altri. Il che è un altro modo di dire che il commercio aiuta a intensificare i legami sociali, fiaccando invece le opportunità di conflitto. Non è un caso che il commercio sia uno, se non il più formidabile antidoto alle guerre fra popoli e nazioni.
Un altro punto fondamentale del libro, e dunque del funzionamento di una società libera basata sullo scambio, è quello che concerne l’etica. È impensabile ritenere l’economia totalmente svincolata dall’etica, come già Adam Smith aveva mostrato. Nel corso del Novecento, del resto, un pensatore come Wilhelm Röpke insistette molto sul fatto che l’economia di mercato può prosperare solo laddove esiste «una determinata concezione della vita e l’esistenza di un mondo etico-sociale» che possiamo riassumere con l’aggettivo borghese:
«l’iniziativa individuale, il senso di responsabilità, l’indipendenza ancorata alla proprietà, l’equilibrio e l’audacia, il calcolo e il risparmio, l’organizzazione individuale della vita, l’inserimento nella comunità, il sentimento della famiglia, della tradizione e della continuità storica e, in più, menti aperte alla realtà presente e all’avvenire, un’equilibrata tensione tra l’individuo e la comunità, dei solidi legami morali, il rispetto dell’intangibilità della moneta, il coraggio di affrontare virilmente i rischi della vita, il senso dell’ordine naturale delle cose e una solida gerarchia dei valori» sono i presupposti etici di un tale ordine.
Il libro degli studiosi americani contiene ovviamente molto di più. La scorrevolezza del testo lo rende un compagno ideale per le vacanze estive.