Le tv commerciali: una battaglia che rivendica libertà

I referendum del 1995: la ricostruzione del dibattito di quei mesi sul rischio della concentrazione del potere mediatico

10 Giugno 2025

La Provincia

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Se le sensibilità di parte del ceto politico e intellettuale fossero state diverse, avremmo potuto avere la televisione privata in Italia con vent’anni d’anticipo. Ma l’atteggiamento di cui abbiamo dato conto sin qui prevale e la televisione privata, anziché nascere, viene abortita nell’Italia degli anni Cinquanta. Come abbiamo visto, la Rai si era assicurata un ventennio di esclusiva nel 1952. Le trasmissioni televisive iniziano due anni dopo. Non era prematuro pensare di muoverle guerra? Come è possibile che a qualcuno sia venuto in mente d’infilarsi in quest’impresa?

Da una parte, le nuove tecnologie, quali che siano, di solito richiamano nuovi sforzi imprenditoriali, talora anche in eccesso (ricordiamo la bolla delle ferrovie inglesi a metà Ottocento, o quella delle dot com sul finire degli anni Novanta, e con tutta probabilità l’intelligenza artificiale ai nostri giorni). Dall’altra, le notizie che arrivavano dall’estero sembravano fatte apposta per smuovere le acque. In Inghilterra, «dal momento in cui i conservatori di Churchill erano tornati al governo nell’autunno del 1951, la posizione di monopolio della Bbc cominciò ad apparire precaria. Nel giro di sette mesi venne presentato un White Paper che chiedeva “qualche elemento di concorrenza”.

II Television Act

Due anni dopo venne approvato il Television Act del 1954, che apriva la strada alla fondazione delle prime imprese televisive commerciali regionali. E il 22 settembre 1955 venne lanciata “Independent Television”». Quattro emittenti indipendenti regionali davano vita a un unico consorzio nazionale, responsabile della produzione di parte della programmazione, a cominciare dal telegiornale. C’era, a differenza che sulla Bbc, la pubblicità, anche se il Television Act proibiva, per esempio, che il singolo show fosse sponsorizzato, come sui network americani che gli inglesi consideravano «volgari». Si dirà che non sbocciarono cento fiori, ma uno soltanto.

La concorrenza era quanto mai imperfetta. Era però un raddoppio dell’offerta. A chi possa spizzicare da una tavola imbandita, la scelta fra pasta in bianco e pasta al sugo non sembrerà una gran cosa. Ma per chi fino al giorno prima poteva ordinare solo pasta in bianco fa tutta la differenza del mondo. Comunque, meglio poter scegliere. Se vacillava il monopolio televisivo per antonomasia, allora, era così irragionevole pensare che si potesse sfidare la più fragile Rai? Nel dicembre 1956 l’emittente romana Tempo Tv, legata, come suggerisce il nome, al quotidiano «Il Tempo» e promossa dal suo direttore editore Renato Angiolillo, chiede al ministero delle Poste e telecomunicazioni la concessione di dieci frequenze per impiantare una stazione televisiva che raggiunga Lazio, Campania e Toscana. Non ci sarebbero, dal punto di vista dell’occupazione dello spettro sempre ritenuto scarsissimo, sovrapposizioni con la Rai, che ha ancora un unico canale. Sarebbe la prima tv locale privata del Paese.

Il “lungo indugio”

Il ministero, dopo quello che ai contemporanei parve un «lungo indugio», chiarisce di non poter prendere in considerazione nuove richieste di concessioni, perché il servizio di radiodiffusione e televisione è stato dato in concessione esclusiva alla Rai. […] La palla, dunque, passa alla Corte costituzionale. Sempre nel 1956, a Milano era nata un’impresa battezzata «Televisione libera», presieduta dall’ingegner Gian Vittorio Figari, fratellastro di Giulia Maria Crespi. Televisione libera può contare sulla collaborazione dell’americana RcA: «Un apporto finanziario con un 25% di azioni, e tecnologico, con la dotazione di apparecchiature maneggevoli, leggere, facilmente smontabili e trasportabili, adatte al colore e di basso costo».

Nello stesso anno, Figari è presidente della giunta di uno sfortunato Partito nazionale democratico, che vorrebbe essere «espressione di tutte le forze produttive nazionali» e «riportare la classe dirigente alla consapevolezza dei propri doveri». La Televisione libera ha sede nella Torre Breda di piazza Repubblica e, grazie a moderni macchinari americani, vorrebbe usare la banda UHF, quella che la Rai non ha ancora occupato (e che occuperà nel 1957). Due anni dopo i primi annunci, «L’Espresso» specula che Tvl possa disporre di sei stazioni trasmittenti fornite dalla RcA, con le quali sarebbe pronta a dar vita a trasmissioni clandestine, nella consapevolezza che farsi trascinare in Pretura sia l’unica via per vedersi riconoscere la propria libertà di parola e di antenna. Sull’«Unità», Arturo Gismondi replica che Tvl non sembra essere tecnicamente in grado di farlo e dunque «il monopolio della Rai non ha le ore contate». È un grande sospiro di sollievo per il quotidiano comunista, che detesta il monopolio televisivo democristiano ma ancor più la mera possibilità della concorrenza.

All’iniziativa milanese lo stop arriva però effettivamente con un procedimento penale ai danni dei soci, imputati di avere «impiantato un apparato per comunicazioni col mezzo di onde elettromagnetiche a onde guidate, senza averne ottenuto la concessione statale» nel maggio 1960. Anche qui, c’è una questione di legittimità: se infatti la concessione in esclusiva fosse incostituzionale, verrebbe meno l’illecito. La Corte costituzionale esamina un caso e l’altro nel 1960. Il 22 giugno sfilano davanti alla Corte giuristi di non secondaria importanza, nella storia repubblicana, arruolati a sostegno delle due posizioni. Tempo Tv è assistita dall’avvocato Antonio Sorrentino e dal professor Costantino Mortati, già deputato alla Costituente e, di lì a poco, giudice costituzionale. Televisione libera, dall’avvocato Giorgio Vigevani e da Arturo Carlo Jemolo. […]

In questa tenzone fra pesi massimi, la Corte prende le parti del monopolio, con una sentenza redatta dal giudice Aldo Sandulli (presidente era Tomaso Perassi). Il punto di partenza è la giustificazione «tecnica» del monopolio: il «fatto» della limitatezza dei canali utilizzabili, che fa sì che «la televisione a mezzo di onde radioelettriche (radiotelevisione) si caratterizza indubbiamente come una attività predestinata, in regime di libera iniziativa, quanto meno all’oligopolio: oligopolio totale od oligopolio locale, a seconda che i servizi vengano realizzati su scala nazionale o su scala locale».

La tesi della limitatezza delle frequenze come base del monopolio viene dunque abbracciata entusiasticamente dai giudici. Ancora una volta, quella che è di fatto una scelta politica (l’affidamento in concessione dello spettro sulla base di criteri politici anziché attraverso un meccanismo competitivo) viene travestita da invalicabile ostacolo tecnico. E…] Se il monopolista non fosse lo Stato, infatti, i pochi canali «cadrebbero naturalmente nella disponibilità di uno o di pochi soggetti, prevedibilmente mossi da interessi particolari», mentre lo Stato, va da sé, è una nave che segue sicura la stella polare dell’interesse generale. […]

La battuta di Campanile

E tuttavia, concede la Corte, siccome il monopolio riguarda pur sempre un servizio destinato alla diffusione del pensiero, bisogna garantire «la possibilità di goderne … a chi sia interessato ad avvalersene». Di qui «l’esistenza di leggi destinate a disciplinare tale possibilità potenziale».

Qualche giorno prima della sentenza, Achille Campanile, che teneva una rubrica sulla televisione sull’«Europeo», aveva scritto: Peggio del monopolio il monopolio del monopolio. Se la Corte decidesse contro il monopolio, scrive Campanile, «avremo una o più tv libere accanto a quella di Stato, e la libertà, col giuoco della concorrenza, sventerà i pericoli che andremo a segnalare» […]


Tratto da Meglio poter scegliere. I referendum del 1995 e la battaglia per la televisione commerciale di Alberto Mingardi (Mondadori, 2025)

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